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Putin ha ritirato il decreto che assicurava l’integrità territoriale alla Moldavia

Il presidente russo Vladimir Putin ha revocato un decreto firmato il 7 maggio 2012 contenente le linee guida da seguire in materia di politica estera. Oltre a ribadire il rispetto dei principi fondamentali delle Nazioni Unite e una maggiore cooperazione con Unione europea e Stati Uniti, la norma sosteneva la sovranità della Moldavia nell’ambito delle politiche sul futuro della Transnistria, regione al confine con l’Ucraina amministrata da separatisti filo-russi. La decisione arriva a pochi giorni dalle dimissioni [1] del primo ministro moldavo Natalia Gavrilita e dalle proteste contro Maia Sandu, presidente della Repubblica. Quest’ultima, in un intervento al Parlamento, ha denunciato «la possibilità di una sovversione russa nel Paese», invitando Mosca a ritirare le sue truppe stanziate in Transnistria dal 1992. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ricordando a Chisinau che «la Russia è stata ed è parte attiva negli affari della regione», ha ammesso che le relazioni tra i due Paesi sono «estremamente tese».

La revoca del decreto da parte di Putin è soltanto l’ultimo tassello di una escalation [2] acuitasi nelle ultime settimane. Ad alimentare la tensione tra Mosca e Chisinau è stata la nascita del nuovo governo moldavo. Quest’ultimo, così come il suo predecessore, presenta una chiara connotazione filo-occidentale; caratteristica che l’avrebbe portato, secondo Maia Sandu, al centro di mire russe, con il Cremlino che vorrebbe un governo affine per esercitare pressioni sull’Ucraina dal sud e allontanare il Paese dall’orbita occidentale. La revoca del decreto può essere dunque considerata non come l’inizio di un’invasione totale bensì come l‘invio di un messaggio politico al Paese, che a giugno 2022 ha ottenuto [3] dall’Unione europea lo status di membro candidato. In nome di tale avvicinamento, il ministro degli Esteri moldavo Nico Popescu si è recato a Bruxelles per chiedere di includere nel prossimo pacchetto di sanzioni anche gli oligarchi e i politici coinvolti nel tentativo di destabilizzare la Moldavia.

Se da un lato, con il decreto firmato nel 2012, la Russia sosteneva formalmente l’integrità territoriale della Moldavia, dall’altro ha rappresentato, a partire dall’accordo che ha congelato la guerra civile tra la Transnistria e lo Stato centrale, il garante della situazione de facto che ha visto la regione esistere con il contributo dei propri peackeeper (circa 1500 militari). Così, a seconda dell’alternanza dei governi in Moldavia, la presenza russa in Transinistria è stata più o meno tollerata. Almeno fino al 2020, quando l’ascesa al potere delle forze liberali ed europeiste e la sconfitta dell’ex presidente filo-russo Igor Dodon ha riportato Chisinau sulla posizione di ritenere sempre meno legittima la presenza russa in Transnistria.

La tensione continua a crescere nelle ultime ore. In Transnistria, si sono registrati degli attacchi al ministero della Difesa oltre che a due antenne di emittenti filo-russe. Le autorità separatiste, così come quelle centrali, hanno dunque convocato il Consiglio di sicurezza, allertando le forze militari lungo il fiume Nistro. Nella capitale moldava, si è registrata una massiccia protesta [4] nei confronti dello Stato per la gestione della crisi economica, che ha portato l’inflazione al 30% e ridotto notevolmente il potere d’acquisto dei cittadini. Durante la manifestazione organizzata dal partito filo-russo Shor la presidente Maia Sandu è stata accusata di essere troppo filo-occidentale e vicina alla NATO. Di tutta risposta, le autorità statali hanno bollato la protesta come parte del piano di destabilizzazione russo.

[di Salvatore Toscano]