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L’opposizione di facciata degli Stati occidentali alle nuove colonie israeliane

Profondo turbamento. È questo il sentimento che il 14 febbraio i Ministri degli Esteri di Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania hanno detto di aver provato davanti alla decisione del Governo israeliano di costruire nuovi insediamenti – fino a 10mila – in Cisgiordania. «Ci opponiamo fermamente, perché queste azioni serviranno solo ad esacerbare le tensioni tra israeliani e palestinesi e a minare gli sforzi per raggiungere una soluzione negoziata a due Stati”. Un annuncio, quello del Primo Ministro Netanyahu, che arriva contemporaneamente alla notizia dell’uccisione di Mahmoud Majed Al-Aydi, un ragazzo palestinese di 17 anni colpito alla testa da un proiettile durante gli ennesimi scontri con l’esercito israeliano in Cisgiordania, dove le stime [1] dicono ci vivano almeno 400mila israeliani, esclusa Gerusalemme Est.

Le colonie israeliane non sono dei piccoli accampamenti, come potremmo essere propensi a credere. Sono al contrario vere e proprie città in miniatura, abitate da migliaia di persone e dotate di strade, scuole e qualche industria. La loro esistenza è da sempre la scintilla che tiene accesa la fiamma del conflitto tra israeliani e palestinesi, un fuoco che arde costantemente e che spesso esplode in violenta repressione. E che di fatto, ha impedito, almeno fino ad oggi, il raggiungimento di una pace duratura.

La nascita delle colonie israeliane risale al 1967, dopo la fine della Guerra dei sei giorni, al termine della quale lo Stato di Israele conquista tutta la Cisgiordania e l’intera città di Gerusalemme (compresa la parte Est, abitata principalmente da palestinesi). Una vittoria, quella di Israele, mai riconosciuta però dalla gran parte della comunità internazionale, che già dalla Seconda guerra mondiale incoraggia la nascita di uno stato palestinese indipendente. Un supporto però che non si è mai tradotto in azioni concrete. Motivo per cui, Israele, nonostante la convenzione di Ginevra (la quarta) [2] nel 1949 abbia stabilito che “la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua propria popolazione civile nel territorio da essa occupato”, ha proceduto in maniera piuttosto disinvolta nella costruzione di insediamenti illegali in casa palestinese, “per motivi di sicurezza e di controllo del territorio”.

Di smantellamento, ormai, non se ne discute neppure più, per almeno due motivi: per via della grandezza che tali colonie hanno raggiunto e perché tutti i Governi di destra che si sono succeduti in Israele non hanno mostrato alcuna intenzione di eliminarle – Netanyahu ha addirittura inserito l’ampliamento degli insediamenti nel suo programma elettorale ufficiale.

Eppure l’Occidente è ancora fermo a dire che «sia israeliani che palestinesi meritano di vivere in pace, con uguali misure di libertà, sicurezza e prosperità», senza però muoversi affinché accada. Anzi, come ha detto [3] il giornalista francese Pierre Haski «per il momento nessuno ha osato chiedere un boicottaggio di Netanyahu», che il 2 febbraio ha pure incontrato il Presidente francese Emmanuel Macron a Parigi. «Gli alleati occidentali di Israele possono davvero difendere il diritto in Ucraina e ignorarlo in Palestina?», si domanda Haski. Al momento nessuno degli interessati sembra chiederselo.

I rapporti con Israele sono così radicati, che l’Occidente non può e non vuole tirarsene indietro. A maggio del 2021 il cancelliere austriaco Sebastian Kurz aveva fatto issare la bandiera israeliana sugli edifici governativi per esprimere solidarietà al Paese dopo gli attacchi missilistici di Hamas, perché «Israele ha il diritto di difendersi». Una facoltà sostenuta da altri leader europei, tra cui l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel. Tutti ringraziati a dovere dal Primo Ministro israeliano: «Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ma anche i leader europei, hanno sostenuto il nostro diritto naturale ed evidente di difenderci, di agire per autodifesa contro questi terroristi che attaccano i civili e si nascondono dietro i civili». Netanyahu un merito ce l’ha: quello di essere riuscito a tessere una trama fitta di relazioni con l’Occidente, superando l’opinione pubblica. In un sondaggio del 2003 il 59% per cento degli europei aveva definito Israele la più grave minaccia alla pace mondiale. Poi qualcosa è cambiato, e lo si è visto dalle visite ufficiali. Molti più leader europei si sono recati direttamente a Gerusalemme: nel 2018 Israele ha accolto il Primo Ministro ungherese Viktor Orban e l’allora Vicepresidente del Consiglio [4] dei ministri Matteo Salvini. E l’anno prima i Ministri dell’economia e degli affari digitali francesi hanno visitato Tel Aviv in occasione del festival dell’innovazione. Come ha fatto notare [5] Benjamin Haddad, esperto di politica europea e relazioni transatlantiche, «gli europei non hanno cambiato la loro posizione ufficiale sul conflitto e sostengono ancora la ripresa del processo di pace, ma la questione palestinese è stata deprioritizzata nel rapporto complessivo».

Significa che, nonostante le violenze e la repressione israeliana siano continuate nel tempo, «oggi è raro trovare un diplomatico europeo che affermi che la questione israelo-palestinese è la chiave per sbloccare tutte le tensioni e i conflitti della regione. La primavera araba del 2010, la guerra civile siriana con le sue conseguenze in Europa (compresi gli attacchi terroristici e l’aumento della migrazione) e il dossier nucleare iraniano hanno tutte spostato le priorità in Medio Oriente». Tant’è che da allora la cooperazione tra Israele e altri Paesi è proliferata, su più fronti, dalle risorse energetiche fino all’ambito tecnologico. Nel 2013, per citare solo un evento, quello di Netanyahu è diventato il primo Paese non europeo a diventare membro del CERN (European Council for Nuclear Research) di Ginevra, con voto unanime. E non manca la difesa. Nel 2011 la Francia ha acquistato 500milioni di dollari di droni Heron, rompendo un embargo sulle armi lungo 44 anni, avviato dall’allora presidente francese Charles de Gaulle dopo la Guerra dei Sei Giorni. Lo stesso ha fatto la Germania. «Ma il cambiamento principale è arrivato dalle stesse società europee ed è il simbolo di qualcosa di più profondo. Di fronte agli attacchi terroristici degli ultimi anni, gli europei hanno sempre più associato Israele a un paese che affronta sfide simili» e che combatte il terrorismo islamista.

Certo è, che qualsiasi sia la ragione del riavvicinamento, Israele alla fine dei conti sembra abbia sempre potuto violare ripetutamente i diritti dei palestinesi a proprio piacimento, senza timore di ritorsioni significative da parte dell’UE.

[di Gloria Ferrari]