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La corsa alle Intelligenze Artificiali fa barcollare il dominio di Google

Nel lanciare platealmente ChatGPT, l’azienda OpeniAI ha fatto il primo passo di quella che si è già trasformata in una guerra aziendale mirata a conquistare il dominio della commercializzazione dei servizi abbinati alla cosiddetta intelligenza artificiale. Chi sperava che la Silicon Valley avesse superato da tempo la filosofia del move fast and break things non può che rimanerne deluso: le Big Tech si stanno frettolosamente lanciando sul mercato per non rimanere indietro rispetto alla concorrenza. Esserci è una priorità assoluta, tutto il resto è secondario. Lo sa bene Google, la quale ha incassato un contraccolpo in Borsa pur di far conoscere al mondo l’intelligenza artificiale sviluppata dai suoi tecnici.

Lunedì 6 febbraio, alla vigilia di un evento Microsoft, il CEO di Google Sundar Pichai ha annunciato [1] l’apertura al pubblico della IA di conversazione prodotta dall’azienda, Bard. Il mercoledì seguente, Pichai ha dunque organizzato un evento di presentazione per mostrare le potenzialità dello strumento stesso. Sostenere che l’incontro sia andato male è riduttivo: l’evento, tenutosi a Parigi, ma trasmesso in diretta sul web [2], non è neppure riuscito a palesare il funzionamento del chatbot perché lo smartphone adibito alla dimostrazione era stato dimenticato o era andato perduto, in ogni caso non si trovava. Nel frattempo, gli utenti facevano notare online che alcune informazioni prodotte dalla debuttante IA erano fattualmente errate [3], mentre voci di corridoio rivelavano che il lancio di Bard non fosse stato adeguatamente anticipato agli addetti ai lavori.

Nel giro di un paio di conferenze, Microsoft ha impressionato positivamente i Mercati, mentre Google è inciampata fatalmente su sé stessa. Il risultato è stato un crollo delle quotazioni di GOOGL. Nel giro di una settimana si è registrato un dislivello di circa il 13%, una reazione finanziaria forse eccessiva, ma che denota bene le perplessità nutrite da NASDAQ e, più in generale, la frenesia degli investitori nei confronti di tutto ciò che riguarda l’uso mercantile delle intelligenze artificiali. Come se non bastasse, il flop di Google è finito rapidamente nel mirino della “memificazione” internettiana, una conseguenza prevedibile e normale che però, a differenza di altre occasioni passate, questa volta si è più mossa verso una profonda amarezza che su di un bonario spirito canzonatorio.

«Caro Sundar», recita uno dei post più condivisi, «il lancio di Bard e la campagna di licenziamenti hanno rappresentato manovre affrettate, raffazzonate e miopi. Per favore torna ad adottare una prospettiva di lungo periodo». Altri messaggi condividono il tono e i contenuti del meme in questione, ma a fare impressione non è solo la forma cruda assunta dalle critiche, ma anche la viralità con cui queste sono state diffuse dagli insider della Big Tech. I dipendenti di Google non sarebbero dunque soddisfatti delle strategie adottate dai loro superiori, ancor più perché a dicembre erano stati gli stessi dirigenti ad ammettere [4]che «lanciare Bard sul Mercato guidati da sentimenti di panico confermerebbe le paure che il Mercato manifesta nei nostri confronti».

In parte è verosimile che i tecnici siano armati di dente avvelenato a causa dei notevoli ridimensionamenti subiti dall’organico di Google – si contano circa 12.000 posizioni professionali in meno –, tuttavia tra le pieghe del cinismo è possibile riscontrare un fondo di ragionamento lucido e consapevole. La Big Tech si sta muovendo rapidamente e con poco preavviso, appoggiandosi a un approccio che non vuole in alcun modo discutere con i giornalisti, ma che sembrerebbe mirato all’appagamento del settore finanziario. La rapidità si è d’altronde dimostrata essenziale agli albori della new economy, lo dimostra il fatto che certe aziende minori hanno prosperato ove i giganti del tech si sono trovati impantanati nella lentezza della propria burocrazia interna. Dal canto suo, OpenAI è ben consapevole di star distribuendo un’intelligenza artificiale imperfetta e problematica, tuttavia non esistono leggi che vadano a responsabilizzare l’azienda delle amenità prodotte dalla propria macchina, una mancanza che potrebbe strategicamente fare la fortuna di Microsoft e di Bing. L’era del move fast and break things sta tornando ad alimentare le ambizioni del mondo tech, ora non resta che capire quali saranno i danni causati alle persone che finiranno al centro delle torbide manovre aziendali.

[di Walter Ferri]