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Poliestere riciclato: una soluzione o un altro problema per il mondo della moda?

Il poliestere rappresenta ancora la fibra più prodotta al mondo. Secondo il Textile Exchange Preferred Fiber and Material Report [1] del 2021, stiamo parlando di una copertura del mercato del 52%, di cui solo il 14% è costituito da poliestere riciclato; il resto arriva ancora da risorse vergini, ovvero petrolio e i suoi derivati. 

La storia di questa fibra sintetica, sintetizzata in laboratorio, risale agli inizi del 900, quando l’uomo ha sentito la fortissima esigenza di iniziare a sviluppare fibre a imitazione di quelle naturali (ovviamente per questioni puramente economiche). Mentre i primi tentativi di riprodurre la seta partivano da pasta di legno, trattata poi con sostanze chimiche, è nei laboratori della Dupont che iniziarono le prime ricerche ed esperimenti sui polimeri. I polimeri sono macromolecole lineari formate da lunghe catene di elementi uniti tra di loro dallo stesso tipo di legame. La polimerizzazione, il processo chimico tramite il quale il petrolio e derivati diventano fili per pronti per essere tessuti, è una catena di reazioni prodotte con l’uso di sostanze dai nomi complessi come cicloesanone, adipontrile, paraxilolo e tante altre. Quello che uscì fuori, nel 1953, era la PA 6.6, poliammide 6.6, meglio conosciuto e commercializzato con il nome di Nylon, sotto forma di calzetteria e intimo femminile. Poco dopo è arrivato anche l’elastan, noto come Lycra, altro elemento rivoluzionario per quanto riguarda il concetto di comodità, resistenza e tenacia. Una fibra altamente innovativa, che ha ribaltato usi e costumi e che ha rappresentato un punto di svolta, sia dal punto di vista produttivo, essendo materiali prodotti in laboratorio gli si può conferire caratteristiche come elasticità e impermeabilità difficilmente riscontrabili in tessuti naturali; sia da quello economico, poiché i costi di produzione (e di vendita) sono più contenuti.

Questo ha reso poliestere&Co. utilizzati non solo nel campo della moda, ma anche in quello dell’arredo, delle pavimentazioni, degli smart textiles e perfino nell’edilizia (queste molte applicazioni spiegano la crescita dei volumi produttivi). Uno dei grossi problemi connessi è la non biodegradabilità, che genera notevoli problemi nello smaltimento, anche quando mescolati ad altre fibre. A questo ci possiamo aggiungere che sono poco traspiranti, facilitano la proliferazione dei batteri producendo cattivi odori; per questa ragione vanno lavati spesso, con conseguente rilascio di microplastiche a ogni ciclo di lavaggio (i ricercatori dell’Università di Plymouth hanno scoperto che un carico di lavatrice di 6 kg può rilasciare oltre 700.000 microplastiche). A una riduzione dei costi produttivi è corrisposto un notevole aumento dei costi ambientali. Motivo per cui si è affacciato, negli ultimi anni, il poliestere riciclato.

Dal poliestere vergine a quello riciclato

Obiettivamente invasi dalla plastica, l’idea di acquistare un capo ottenuto da poliestere riciclato rassicura le coscienze e ripulisce, in parte, l’immagine di alcuni marchi, che in qualche modo sentono di contribuire ad alleggerire la loro impronta sul pianeta. In parte, perché dietro al riciclo di questa fibra si nascondono notevoli problematiche che non lo fanno essere meno impattante del suo fratello vergine. A partire dal “cosa” si va a riciclare per ottenere la nuova fibra. Del 14% del poliestere riciclato, il 99% proviene da PET (bottiglie di plastica); il restante 1% proviene da rifiuti oceanici come reti da pesca, tappeti, tessuti di scarto o dai residui di lavorazione pre-consumo. Non si tratta quindi di un processo circolare che va da tessuto a tessuto (il mio maglione di poliestere che si trasforma in nuovo poliestere), bensì da imballaggi a fibre, con tutte le magagne del caso.

Il riciclo meccanico delle bottiglie di plastica è un processo con il quale si risparmia energia (circa il 59% in meno rispetto alla produzione di poliestere tradizionale) e che produce meno CO2; questo senza tenere conto della produzione della materia prima, il PET! 

Però si tratta di un procedimento che indebolisce le fibre, per questo motivo gli abiti in PET riciclato non solo non sono trasformabili all’infinito, ma per garantire le stesse qualità della fibra originale, viene spesso mescolata con una percentuale di sintetico vergine, andando a minare ulteriormente la pretesa di circolarità. Riciclo funzionale, ma con dei limiti evidenti.

Esiste poi un altro aspetto da considerare: la richiesta di bottiglie in PET è condivisa tra l’industria degli imballaggi e quella dell’abbigliamento, provocando una concorrenza spietata tra le due e mettendo in seria difficoltà le imprese di cibo e bevande per il raggiungimento dei loro obiettivi di circolarità (ovvero garantire le quantità obbligatorie di materiale riciclato nel packaging alimentare, come da legislazione europea). 

Auspicabile sarebbe implementare e sviluppare un sistema che consentisse il riciclo reale da tessuto a tessuto, consentendo a quegli abiti dismessi di essere veramente messi in circolo (sempre che siano 100% PL, perché ancora non siamo in grado di riciclare abiti composti da fibre miste). In ogni caso, la domanda di poliestere riciclato è in crescita; tra gli obiettivi della campagna di Textile Exchange [2] c’è quello di raggiungere, nel 2025, la quota 45% di poliestere riciclato, per poi arrivare al 90% entro il 2030. 

Riciclato o meno, il poliestere sempre plastica rimane, con tutte le implicazioni connesse, come il rilascio di microplastiche e la difficoltà di essere riciclato più volte. Però ha un costo contenuto, si adatta bene alle nuove collezioni e s’inserisce perfettamente nei racconti di sostenibilità da parte di aziende che, di sostenibile, non hanno niente. Una soluzione decisamente più semplice, immediata e comunque redditizia, che non mette in discussione logiche produttive ormai consolidate.

Lo sforzo reale, invece di continuare a produrre quantità spropositate di capi con poliestere riciclato, sarebbe quello di ridimensionare le produzioni, puntare sulla qualità e educare le persone a un consumo consapevole.

[di Marina Morgatta]