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Foibe: la verità storica oltre la propaganda

Anche ieri, come ogni anno dal 2004, il 10 febbraio è stato “il Giorno del ricordo” dedicato alle Foibe e come sempre non sono mancati momenti per ricordare quella che spesso viene definita «la più grande tragedia del popolo italiano». La commemorazione non ha ovviamente risparmiato il palco di Sanremo dove, di fronte a milioni di spettatori, Amadeus ha ricordato «l’eccidio di migliaia di nostri connazionali gettati nelle foibe dalle milizie del maresciallo Tito». Alla foiba di Basovizza si è recato invece il presidente del Senato, Ignazio La Russa, che ha parlato di «pulizia etnica» ai danni degli italiani. Ma cosa furono realmente le Foibe e cosa sappiamo, utilizzando solo le fonti storiche, su quanto avvenne? Chi ci finì dentro? Per quale ragione? Quanti furono realmente gli infoibati? E per ultimo: si trattò realmente di un caso di pulizia etnica ai danni degli italiani o la questione è in realtà più complessa?

Il Giorno del ricordo

In memoria delle vittime delle foibe e degli esodati della regione giuliano-dalmata, la legge n. 92 del 30 marzo 2004 ha istituito la giornata dedicata al ricordo, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno: in tale data, nel 1947, furono firmati a Parigi gli accordi pace che chiudevano ufficialmente il secondo conflitto mondiale. I fatti che vengono commemorati il 10 febbraio, perlomeno quelli riferiti ai cosiddetti infoibati, si verificarono quando il conflitto era ancora in corso – nell’autunno 1943 – e quando volgeva al termine (primavera del 1945), mentre già si profilava all’orizzonte lo scenario della guerra fredda e dei due blocchi contrapposti.

La divulgazione [1] degli eventi, in generale, si è spesso concentrata su quanto accadde nella primavera del 1945 e negli anni successivi con il grande esodo, ma non va dimenticato come nei mesi di settembre e ottobre del 1943, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre, si consumò, speciale nelle aree rurali istriane, una spirale di violenze (omicidi, sevizie, stupri, etc.) che colpì tutti coloro, non solo italiani, che furono ritenuti colpevoli di aver collaborato col regime fascista e con le autorità di occupazione. A farne le spese non soltanto militari o gerarchi, ma anche membri delle forze dell’ordine e comuni cittadini, come funzionari pubblici, impiegati e insegnanti, proprietari terrieri, persino ostetriche e levatrici. A prescindere dalla nazionalità.

I fatti del 1943

A differenza di quanto avverrà a fine guerra, quando si parlerà di “violenza di Stato [2], i fatti del 1943 si configurarono per lo più come un moto (più o meno) spontaneo di ribellione e vendetta contro quelli che erano ritenuti i protagonisti della passata occupazione. Un ulteriore distinguo tra le due ondate di violenza investe il profilo spaziale: i fatti del 1943 investirono soprattutto l’Istria, mentre nel 1945 l’epicentro si spostò nelle province di Trieste e Gorizia. Inoltre, se la prima delle due ondate di violenza scaturì dal crollo del Fascismo e dal successivo armistizio di Cassibile, nel 1945 fu il regime di occupazione nazifascista, che aveva istituito in Friuli, nella Venezia Giulia e in Dalmazia la cosiddetta “zona di operazioni litorale adriatico” (controllata di fatto dai tedeschi) a implodere, travolto dalla sconfitta bellica.

Tornando all’autunno del 1943, poco prima dell’arrivo delle forze di occupazione tedesche, si creò una sorta di limbo, nel quale il crollo del regime di occupazione dell’Italia fascista lasciò spazio, per alcune settimane, alle forze antagoniste, guidate dal movimento di liberazione partigiano. Questo ultimo, approfittando del fatto che i tedeschi in un primo momento si preoccuparono di occupare i centri nevralgici di Trieste, Pola e Fiume – il che spiega perché nella prima ondata di violenza ad essere colpita fu più che altro l’Istria -, proclamarono l’annessione della penisola istriana alla Iugoslavia, dando avvio – senza una organizzazione definita [3], per lo meno senza un disegno organico – alla resa dei conti con gli ex occupanti; in questa fase nacquero i “poteri popolari” e furono celebrati in tutta fretta processi sommari ed esecuzioni ai danni dei “nemici del popolo”, che sfociarono nei primi infoibamenti

Gli italiani “brava gente”

La narrazione politica delle Foibe, introdotta specialmente per volere dei partiti della destra italiana, si è concentrata su una narrazione vittimistica dei fatti. Nel senso che questi vengono interpretati come un atto di violenza etnica immotivata ai danni degli italiani, attribuiti a una cattiveria immotivata degli slavi e alla perfidia criminale del leader comunista dei partigiani jugoslavi: il maresciallo Josip Broz Tito. Ma ogni fatto storico deve essere inserito in un contesto, ogni fatto va illustrato mettendo in campo gli antefatti, se no è impossibile farsi una idea corretta di un accadimento storico.

La domanda da porsi in questo caso è la seguente: per quale ragione vi era tanto risentimento nelle zone jugoslave che per anni erano state sottoposte all’occupazione fascista? In Italia si è imposta oggettivamente una memoria selettiva dei fatti. Per quanto ultimamente, ad onor del vero, l’argomento cominci a essere dibattuto e non sia solo più appannaggio di storici e addetti ai lavori, non ci dovremmo mai stancare di ricordare come, nella provincia di Lubiana, occupata nei primi anni di guerra assieme alla costa dalmata e alla provincia di Zara, gli italiani praticarono una dura politica di occupazione e feroce italianizzazione forzata, con tanto di leggi e provvedimenti molto stringenti nei confronti delle popolazioni slave: per esempio fu vietato, già a partire dagli anni venti per le parti annesse dopo la Prima Guerra Mondiale, l’uso delle lingue locali. E con la guerra le cose peggiorarono.

Gli italiani istituirono nelle zone occupate veri e propri campi di concentramento, dove furono internate le (numerose) popolazioni locali contrarie alla politica fascista di assimilazione. Resta negli annali un telegramma dell’allora comandante dell’XI corpo d’armata, generale Mario Robotti che scrivendo ai suoi sottoposti nell’agosto del 1942, riportava una frase lapidaria (tutta in maiuscolo): «SI AMMAZZA TROPPO POCO!». In sostanza, l’invasione e l’occupazione nazifascista della Jugoslavia, iniziata nell’aprile del 1941, divenne ogni giorno più cruenta [4], rappresentando un vulnus al mito nostrano degli italiani “brava gente”. In realtà, per demolirlo basterebbe avere contezza dei crimini perpetrati, per l’appunto, in queste regioni e in Grecia, e non parliamo dell’Africa per non divagare, rinviando alla lettura dei libri dello storico Angelo Del Boca. Per una breve disamina vi consigliamo, assieme alla lettura dei molti saggi dedicati, il video [5] realizzato da Nova Lectio “Perché non c’è mai stata una Norimberga italiana”. È bene inoltre ribadire che le vittime delle violenze non furono solo gli italiani, ma anche sloveni e croati etichettati come “collaborazionisti”, ragion per cui, per restare sempre ai fatti del ’43, sarebbe per lo meno improprio parlare di una violenza su base etnica. E lo stesso discorso varrà, come vedremo, per i fatti del ’45.

Non tutte le vittime morirono nelle foibe

Per quanto le foibe siano divenute, in un certo senso, il simbolo stesso della tragedia, diciamo subito che non tutte le vittime delle violenze degli anni Quaranta furono precipitate nelle cavità carsiche. Inoltre, le foibe, veri e propri “inghiottitoi naturali”, non furono quasi mai strumenti per dare la morte ai malcapitati, bensì degli strumenti utili per occultare le vittime; va pure detto che in taluni casi le persone furono gettate ancora vive all’interno delle cavità, magari con la promessa che se si fossero salvate sarebbe stata loro risparmiata la vita, ma nella gran parte dei casi chi vi veniva precipitato era già morto.

Non era la prima volta che le foibe, termine derivante dalla lingua slovena, venivano utilizzate con questo scopo. Queste cavità naturali, diffuse nell’entroterra istriano e nei pressi di Trieste e Gorizia già in precedenza erano state utilizzate per occultare cadaveri, come per esempio i corpi dei militari morti in guerra, e probabilmente vi si fece ricorso perché costituivano il mezzo più celere per disfarsi dei morti. Se vogliamo, tutto questo rappresenta un’atroce beffa, visto che prima della guerra era diffusa tra le genti locali l’abitudine di gettare nelle foibe carcasse di animali o semplici rifiuti, non mancarono i suicidi, per cui il loro utilizzo in queste circostanze farebbe pensare a una sorta di cinica equiparazione tra gli esseri umani e semplici rifiuti da “smaltire”. Per questi scopi non furono utilizzate solo le cavità naturali, ma anche miniere di Bauxite o il pozzo minerario di Basovizza [6], divenuto sede del memoriale ufficiale.

Non tutti i morti delle violenze di quegli anni, sui numeri ancora si discute, furono infoibati, il che contribuisce ad alimentare molte delle incertezze che circondano il bilancio delle vittime. Per questa ragione gli stessi autori del saggio Foibe parlano di “deportati” o “uccisi” per riferirsi alla platea delle vittime della repressione.

Un discorso del tutto diverso, per quanto i due fatti vengano spesso accomunati, è quello che investe gli esuli di origine italiana che abbandonarono nel dopoguerra le regioni della Venezia Giulia passate dalla Jugoslavia (si parla di circa 250mila persone, ma c’è chi ha parlato di numeri più elevati): oggi non ce ne occuperemo per non ampliare troppo il discorso, limitandoci a dire che se un punto di contatto può essere trovato tra i fatti descritti e il grande esodo del dopoguerra, allora possiamo dire che il clima di violenza destò una grande impressione sugli italiani residenti in Istria e Dalmazia, i quali – al di là della volontà politica del nuovo regime titino – poterono essere indotti [7] in molti casi, a lasciare tutto, preoccupati del ripetersi di certi scenari.

Un argomento a lungo trascurato?

Per molti anni delle foibe non si è parlato. I primi a farlo, per quanto la cosa possa sorprendere, furono i nazisti occupanti. Le prime operazioni di ispezione e rinvenimento dei cadaveri precipitati nelle cavità naturali furono messe in atto proprio durante il regime di occupazione, instaurato nella Venezia Giulia, Istria e Dalmazia a partire dall’autunno del 1943. Non si deve pensare a un gesto umanitario da parte delle forze del Terzo Reich: i rinvenimenti – cui seguirono le prime stime sul numero delle vittime – e la divulgazione di notizie in merito servirono come strumento di propaganda per un regime che ancora provava a farsi vedere sul fronte interno come “costretto” alla guerra dalla violenza degli avversari. Le vicende belliche resero via via meno prioritarie le operazioni di recupero, ma ci sono pervenuti una serie di documenti storici che costituiscono una preziosa fonte, naturalmente da valutare con ogni accortezza, vista la evidente parzialità della parte coinvolta e gli eccessi propagandistici che circondarono le indagini

Facendo un salto in avanti di circa un anno e mezzo, arriviamo alla primavera del 1945, quando la guerra in Europa volge al termine, con la disfatta delle forze dell’Asse. In quella fase, i territori della Venezia Giulia e dell’Istria, a cominciare dalla città di Trieste – nota per la sua valenza strategica ed economica, prima ancora che simbolica – erano contesi tra le forze partigiane guidate da Josip Broz Tito e gli alleati occidentali, tra i quali figurava anche l’Italia (quasi del tutto) liberata, alla quale era stato riconosciuto dagli alleati lo status di co-belligerante. Non potendo approfondire più di tanto, ci limiteremo a dire che in quella sorta di “corsa” per occupare per primi le zone contese, ciascuna parte si proponeva di mettere l’altra di fronte al fatto compiuto. Ed è importante dire questo, per comprendere come la nuova ondata di violenze, questa volta più organizzata rispetto a quella del ’43, si collegò direttamente con la volontà di “arrivare primi”, colpendo, anche questo non è un caso, i centri urbani – a cominciare da Trieste e Gorizia – con l’obiettivo di eliminare e/o indurre alla fuga tutti coloro che si opponessero all’annessione di questi territori alla futura Jugoslavia

Non solo italiani

Ancora una volta ad esserne travolti non furono solo gli italiani, fascisti o meno che essi fossero poco importava, quanto tutti coloro che si opponessero, più o meno apertamente, al disegno politico del nuovo stato socialista jugoslavo: anche in questo caso, pertanto, ad essere uccisi o deportati furono anche gli slavi. Visto che a contare era l’affinità ideologica, ad essere eliminati o perseguitati furono anche diversi appartenenti alle formazioni partigiane non marxiste.

Il che ci offre lo spunto per rispondere a uno dei tanti (e improbabili) paragoni che sono stati proposti tra le foibe e le guerre iugoslave degli anni Novanta. Fermo restando che in entrambi i casi furono commessi numerosi crimini, spesso ai danni di persone innocenti, il binomio sarebbe quantomeno discutibile. La violenza degli anni Quaranta, come abbiamo visto, non aveva una matrice etnica, ma era stata mossa da risentimenti personali (specie nel ’43) o da ragioni politiche (1945). In altre parole, tanto nel ’43 che nel ’45, non si può parlare di un progetto di pulizia etnica, vale a dire scacciare da un determinato territorio gli appartenenti a una certa nazionalità, bensì di una vendetta contro l’oppressore o del perseguimento dell’obiettivo politico di conquista territoriale (e, se vogliamo, ideologica), che passava attraverso l’eliminazione del nemico di turno, a prescindere dalla sua appartenenza etnica. Infine, in merito all’ipotesi di una equiparazione tra foibe e olocausto, si è espresso fin troppo chiaramente lo storico Marcello Flores [8], che ha definito il paragone «frutto di ignoranza o stupidità».

Chi erano gli infoibati?

E se c’è un punto sul quale le discussioni si fanno particolarmente accese, questo, come accennavamo, riguarda il numero delle vittime, tanto per i fatti del ’43, che del ’45. Esistendo sul punto una corposa storiografia, non possiamo che rinviare a quella, limitandoci solo a una considerazione, magari banale, ma a nostro avviso importante: a prescindere dalla posizione che si voglia assumere, e tenendo sempre a mente che solo una parte delle vittime fu infoibata, un clima di violenze fondata su una giustizia sommaria – che provochi una, cento, mille, centomila vittime – non è mai una cosa buona. Si era in guerra e in un contesto molto particolare, verissimo, ma in via di principio ci sia consentita questa presa di posizione. Se poi tra le vittime c’erano dei criminali – e sicuramente ci furono, tipo chi lavorò per il famigerato Ispettorato speciale per la pubblica sicurezza della Venezia Giulia o prestò la propria opera in quell’inferno in cui venne trasformata la risiera di San Sabba – il percorso doveva essere un altro, specie una volta cessate le ostilità. 

Le difficoltà per stilare un bilancio delle vittime

Spendiamo solo qualche parola sulle difficoltà nello stilare un bilancio delle vittime. Occorre tener conto, in primis, delle difficili operazioni di rinvenimento dei resti umani all’interno delle foibe – vi risparmiamo i dettagli più atroci – del fatto che nel contesto bellico furono in tanti a morire per le vicende stesse della guerra (pensiamo ai morti in battaglia o causati dai bombardamenti per esempio), a tutti coloro che dopo l’arresto trovarono la morte all’interno dell’apparato repressivo e concentrazionario creato dal governo jugoslavo, alle vittime di vendette personali o atti di criminalità comune. Guido Franzinetti, che insegna Storia contemporanea e dei territori europei presso l’università del Piemonte Orientale di Vercelli, parlò di un numero ridotto di vittime italiane nelle foibe, mentre la maggioranza trovò la morte nei campi di concentramento jugoslavi gestiti dall’OZNA, il Dipartimento per la Protezione del Popolo, la polizia politica del regime titinoIn un passaggio di una intervista al periodico Trenta Giorni del 2007, la storica Alessandra Kersevan [9] sosteneva che: «Nelle foibe non sono finite donne e bambini, i profili di coloro che risultano infoibati sono quasi tutti di adulti compromessi con il fascismo, per quanto riguarda le foibe istriane del ’43, e con l’occupatore tedesco per quanto riguarda il ’45. I casi di alcune donne infoibate sono legati a fatti particolari, vendette personali, che non possono essere attribuiti al Movimento di liberazione.

Ma il punto più importante è uno: qualsiasi ricerca condotta con i crismi della scienza storica in questi anni porta a numeri ben inferiori a quelli spesso sparati in libertà da parte del mondo politico e giornalistico maggiormente interessato all’utilizzo del tema. È ormai assodato che in Istria nel ’43 le persone uccise nel corso dell’insurrezione successiva all’8 settembre sono fra le 250 e le 500, la gran parte uccise al momento della rioccupazione del territorio da parte dei nazifascisti; nel ’45 le persone scomparse, sono meno di 500 a Trieste e meno di 1000 a Gorizia, alcuni fucilati ma la gran parte morti di malattia in campo di concentramento in Jugoslavia. Uso il termine “scomparsi”, ma purtroppo è invalso l’uso di definire infoibati tutti i morti per mano partigiana. In realtà nel ’45 le persone “infoibate” furono alcune decine, e per queste morti ci furono nei mesi successivi dei processi e delle condanne, da cui risultava che si era trattato in genere di vendette personali nei confronti di spie o ritenute tali. Insomma, se si va ad analizzare la documentazione esistente si vede che si tratta di una casistica varia ben diversa da un progetto di pulizia etnica come viene spesso detto in questi anni.

Il dopoguerra e i primi tentativi di storicizzare le foibe

Venendo al “poi”, come ricordano Pupo e Spazzali nel dopoguerra furono celebrati alcuni processi contro gli autori degli eccidi, ma si trattò sempre del perseguimento di fatti singoli, mai di un processo sulle foibe o contro gli infoibatori in generale: diversi degli autori dei crimini trovarono rifugio in Jugoslavia, scampando così alla giustizia. Lo stesso discorso varrà per il processo celebrato tra fine Novecento e il nuovo millennio a Roma, tra i quali il croato Oskar Piskulic, ex ufficiale della OZNA mai presente in aula, che si chiuderà con una sentenza di proscioglimento.

In effetti, fu a partire dai primi anni Sessanta che si cominciò a storicizzare le foibe, mentre col processo per i responsabili della risiera di San Sabba degli anni Settanta si tentò di riportare alla luce i fatti. Va detto che un autorevole storico come Giovanni Miccoli ha sempre rigettato ogni accostamento tra le foibe e San Sabba. Galliano Fogar, tra i massimi studiosi dell’argomento nei decenni del dopoguerra, non sembra accogliere l’idea di un genocidio antitaliano, che ove praticato – a suo avviso – avrebbe provocato molte più vittime. Sulla stessa linea Diego De Castro, che fu consigliere del governo italiano presso l’amministrazione militare di Trieste, che parla casomai di una logica di “epurazione preventiva” contro i nemici (presunti) del nuovo regime titino, che forse e per breve tempo pensò di estendere i suoi confini fino a Trieste.

Su violenza di stato e clima da epurazione preventiva si incentrano anche le riflessioni [10] della Commissione mista italo slovena istituita nel 1993 di comune accordo tra i due governi, che ha presentato le sue conclusioni negli anni duemila. Sergio Dini, ex capo della procura militare di Padova, chiamato a indagare a inizio millennio sulle Foibe, così si pronunciò [11] in merito a presunti intralci alla giustizia: «Avevamo individuato i responsabili ma l’inchiesta fu trasferita dalla Cassazione e sparì. Il comandante del campo di concentramento di Borovnica? Prese la pensione italiana fino alla morte».

Conclusioni

Trovandosi oggi a scrivere delle Foibe, quando nel prossimo autunno saranno trascorsi ottant’anni dalla prima ondata di violenze, il dovere della memoria resta quanto mai attuale. Prendendo le mosse dalle motivazioni politiche contingenti e dal contesto internazionale del secondo dopoguerra, che a lungo fece calare il silenzio su quei fatti, tranne che tra gli addetti ai lavori, ci sia consentito di esprimere qualche perplessità sui tentativi di strumentalizzazione politica dei fatti. Come abbiamo già detto, forse l’unico punto di contatto è che un crimine resta tale, tanto che sia compiuto per ragioni politiche, quanto che lo si commetta per odio etnico o religioso, circostanza che spesso celano ben altre finalità.

I fatti dell’Istria e della Venezia Giulia racchiudono al loro interno una serie di fattori dei quali non si può non tenere conto: il contesto storico, le vicende belliche, una serie di violenze che evocano la responsabilità di vari attori, le vicende del secondo del dopoguerra, con la rottura tra Tito e Stalin (1948) e la nuova collocazione internazionale della Iugoslavia socialista. In tal senso, il lavoro di indagine e accertamento, affidato agli storici e ai ricercatori, dovrebbe fondarsi anzitutto sulle fonti documentali, trascurando le mere opinioni. A nostro avviso, l’insieme di fatti e circostanze chiamate, per semplificare, “tragedia delle Foibe”, dovrebbe insegnare che quando il terrore e la convenienza politica prendono il sopravvento, magari associati alla propaganda martellante, al rancore e al fanatismo, spesso a pagare sono (anche) coloro che hanno la sventura di trovarsi nel “posto sbagliato al momento sbagliato”

Per tutto quanto non abbiamo potuto dirvi e raccontarvi per esigenze di tempo e di spazio, vi chiediamo perdono e vi rimandiamo, ancora una volta, alla consultazione di libri e documenti, l’unico metodo per chi voglia veramente comprendere.

[di Paolo Arigotti]