- L'INDIPENDENTE - https://www.lindipendente.online -

L’ultima puntanta dei Twitter Files svela la bufala dei bot russi

«Era una truffa». Così nella quindicesima puntata dei Twitter Files, il giornalista indipendente Matt Taibbi [1] ha smontato l’accusa di ingerenza russa sul social, che ha tenuto banco durante la presidenza Trump. L’inchiesta di Taibbi si concentra sulla dashboard web Hamilton 68 [2] (progetto lanciato dal German Marshall Fund’s ‎Alliance for Securing Democracy per monitorare la propaganda russa), usata come fonte di riferimento dai media mainstream. 

Citando il sito Hamilton68.com, la stampa americana ha insistito per anni sul fatto che i russi avessero schierato bot e squadre di troll su Twitter per fomentare il sostegno al deputato repubblicano Devin Nunes e amplificare l’hashtag #ReleaseTheMemo [5]. Hamilton68.com aveva segnalato [6] la crescita rapida dell’hashtag e su Politico, Molly McKew [7] aveva portato alla ribalta la notizia. A loro volta, i democratici avevano inviato una lettera [6] a Facebook e Twitter per segnalare il pericolo di infiltrazioni straniere. 

Hamilton 68 ha monitorato circa 600 account che sosteneva fossero legati all’influenza russa. L’ASD aveva spiegato che «Alcuni di questi account sono controllati direttamente dalla Russia, altri sono utenti che di propria iniziativa ripetono e amplificano in modo affidabile temi russi».

Ora, grazie ai Twitter Files, sappiamo invece che il social non aveva trovato alcuna prova che i russi fossero coinvolti in questa storia. Invece di ottenere le prove di un’ingerenza russa, Hamilton 68 ha semplicemente raccolto una manciata tweet di persone reali, per lo più americani, e ha fatto passare queste conversazioni come «intrighi russi», spiega Taibbi [1]. Nel suo elenco, infatti, erano stati schedati come bot o troll russi normali cittadini americani, canadesi e britannici. Tra questi erano stati inclusi l’avvocato repubblicano David Shestokas [8] – che si era candidato per la poltrona di procuratore generale dell’Illinois nel 2022 – l’esponente dei media conservatori, Dennis Michael Lynch [9], fondatore e CEO di TeamDML Inc., e il giornalista indipendente Joe Lauria [10].

Dai documenti resi pubblici da Taibbi, si è inoltre scoperto che i dirigenti di Twitter non si fidavano totalmente dei dati raccolti. Yoel Roth, l’ex capo della sicurezza di Twitter, aveva decodificato l’elenco di 644 account monitorati: «La selezione degli account è bizzarra e apparentemente arbitraria», scriveva in una comunicazione interna il 3 ottobre 2017. «Sembra che preferiscano fortemente gli account pro-Trump […] anche se non ci sono prove valide che nessuno degli account che hanno selezionato sia o meno russo». Nel gennaio 2018, Roth aveva accusato Hamilton 68 di essere dannoso e si diceva convinto che le persone inserite nella lista della dashboard avessero il diritto di sapere «di essere state etichettate come tirapiedi russi senza prove». Alla fine, il social ha esitato a smontare quella che Taibbi definisce una “frode” per non compromettersi con l’Alliance for Securing Democracy e rischiare di inimicarsi le élite democratiche.

Taibbi ha parlato apertamente di «maccartismo digitale», in quanto le informazioni errate, diffuse da Hamilton 68, venivano utilizzate come fonte autorevole dai media, ma anche dalla sinistra e dalle Università, per perseguitare personalità vicine alla destra. 

La falsa accusa della presenza di una rete di bot e troll russi ha polarizzato l’opinione pubblica e diffuso l’idea che le democrazie in Occidente [11] fossero a repentaglio e che fosse necessario adottare misure repressive, quali la censura, per difendere la collettività dalla minaccia straniera.

Da quel momento, la propaganda russa è diventata un leit motiv, finendo al centro anche del dibattito mediatico nel nostro Paese, ben prima che esplodesse il conflitto russo-ucraino. I nostri mezzi di informazione [12] hanno abbracciato e promosso con entusiasmo la narrazione di un complotto social orchestrato dal Cremlino. I media italiani hanno dedicato più volte ampio spazio ai famigerati bot e troll russi [13], dipingendoli come un pericolo sociale, scivolando inesorabilmente nella paranoia quando si sono accusati i russi di aver influenzato il risultato del referendum [14] costituzionale italiano del 2016. 

Da lì, alle liste di proscrizione, di altrettanta maccartiana memoria, il passo è stato breve.

[di Enrica Perucchietti]