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Nonostante le pressioni neanche il 10% delle aziende occidentali ha lasciato la Russia

Secondo un recente studio sugli investimenti delle società occidentali in Russia, è emerso che solo una piccola percentuale di imprese ha interrotto le sue relazioni commerciali con Mosca e trasferito le sue filiali altrove dopo l’inizio della cosiddetta “operazione militare speciale” del Cremlino. La ricerca, condotta dal professor Simon Evenett, dell’Università di San Gallo, e dal professor Niccolò Pisani, dell’International Institute for Management Development (IMD), ha messo in luce che meno del 9% delle aziende occidentali ha disinvestito dalla Russia, nonostante le sanzioni e la pressione che i governi hanno esercitato in tal senso. Secondo lo studio [1], «le uscite confermate di aziende dell’Ue e del G7 che avevano partecipazioni in Russia rappresentano il 6,5% dell’utile totale al lordo delle imposte di tutte le imprese dell’Ue e del G7 con attività commerciali attive in Russia».

Nello specifico, le imprese europee sono quelle che hanno lasciato la Russia in percentuale minore (8,3%) rispetto a Stati uniti (meno del 18%) e Giappone (15%). Questo in quanto l’Europa è la regione che ha più scambi commerciali con Mosca e non stupisce, dunque, che sia proprio la Germania, considerata il motore economico della Ue, ad avere mantenuto il maggior numero di aziende pienamente attive in Russia dopo il febbraio 2022. Ciò dimostra che la propensione a rimanere o ad abbandonare la Federazione è diversa da Paese a Paese e, in particolare, tra i membri del G7 e dell’Ue. Gli autori dello studio precisano quindi che «Questi risultati mettono in discussione la volontà delle aziende occidentali di separarsi dalle economie che i loro governi ora considerano essere rivali geopolitici». Per quanto riguarda l’Italia, la ricerca afferma che sono più le compagnie rimaste in Russia che quelle che l’hanno abbandonata.

Alcune grandi multinazionali ad avere lasciato completamente la Russia sono Ford, Renault, McDonald’s, Ikea e Shell, secondo un elenco [2] compilato dall’università di Yale. Altri giganti come Unilever, il franchise di fast food statunitense Subway e il produttore di pasta italiano Barilla, invece, hanno continuato a operare nel Paese. Pare, dunque, esserci uno scollamento tra le decisioni geopolitiche europee e occidentali e gli interessi economici delle imprese, la maggioranza delle quali ha ignorato la guerra commerciale intrapresa dal G7 e dalla Ue contro Mosca per salvaguardare i propri affari. Tuttavia, gli autori dello studio sottolineano che «crescono le pressioni sulle aziende affinché si separino dai rivali geopolitici» e che i «fautori del reshoring della produzione, del friend-shoring e simili hanno preso il sopravvento dall’inizio della pandemia di Covid-19». Si chiedono quindi se tale cambiamento si tradurrà in un cambiamento globale nel commercio decretando la fine della globalizzazione e se le multinazionali sono pronte per questo. «Molte compagnie occidentali hanno speso decenni e decine di miliardi di dollari o euro per costruire business in economie ora ritenute rivali geopolitiche. Quanto sono pronte queste imprese per riportare indietro l’orologio sulla globalizzazione?»

Lo studio in questione è stato criticato da Jeffrey Sonnenfeld e Steven Tian, i redattori della lista delle imprese che hanno abbandonato la Russia, in quanto accusano gli autori di aver «fabbricato i dati». Per questo hanno scritto una lettera di protesta al giornale Politico [3]. Tuttavia, l’Università di San Gallo e l’IMD hanno respinto con forza tali accuse, affermando che «La presunta fabbricazione di dati è un attacco all’integrità dei nostri colleghi». Il risentimento verso lo studio potrebbe derivare anche dal fatto che i dati in esso contenuti smentiscono la narrativa dominante secondo cui la Russia è sempre più isolata, mettendo in risalto piuttosto come anche le imprese occidentali, e in particolare europee, siano commercialmente legate a Mosca e come le decisioni prese dal G7 dopo l’invasione dell’Ucraina stiano contribuendo a ridefinire la globalizzazione con esiti non sempre positivi per le compagnie delle nazioni industrializzate.

Dopo la smentita [4] delle tesi circa il fallimento dell’economia russa, dunque, anche il mantra dell’isolamento di Mosca – ripetuto incessantemente dal mainstream e dalle istituzioni – viene sgretolato: non solo, infatti, non è stata isolata dalla maggioranza degli Stati del mondo, ma anche molte multinazionali occidentali hanno proseguito i loro affari con la Federazione nonostante le pressioni governative e le sanzioni imposte al Cremlino. E ciò per evitare gravi ripercussioni sul fatturato aziendale che avrebbero colpito ulteriormente l’economia già debole del Vecchio continente.

[di Giorgia Audiello]