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Covid, la ricerca conferma: il plasma iperimmune salva i pazienti immunocompromessi

L’utilizzo del plasma iperimmune sembra essere “associato a benefici relativi alla mortalità negli individui immunocompromessi e affetti da Covid-19″: a suggerirlo sono i risultati di uno studio [1] recentemente pubblicato sulla rivista JAMA Network Open, condotto con l’obiettivo di valutare le “esperienze cliniche” dei pazienti Covid immunodepressi e trattati con il plasma convalescente. Gli autori del lavoro scientifico, precisamente una revisione sistematica ed una meta-analisi, hanno esaminato tutta una serie di studi e casi clinici in cui i pazienti Covid presentavano una immunosoppressione primaria o secondaria (cioè ereditaria o meno), cercando di fare luce sull’impatto della trasfusione del plasma convalescente in qualsiasi dosaggio. Ebbene, il trattamento con plasma convalescente è risultato essere legato ad una diminuzione del rischio di mortalità nei pazienti immunocompromessi, nonostante il fatto che questi ultimi siano stati sottoposti al trattamento “relativamente tardi”.

“L’efficacia delle terapie a base di anticorpi per gli individui immunocompetenti si basa sulla somministrazione precoce con dosaggio sufficiente” e “questo principio è stato convalidato dall’esperienza del plasma convalescente Covid-19”, si legge infatti nello studio, il quale però ricorda che in tal caso i pazienti immunocompromessi sono stati trattati con il plasma iperimmune mediamente ben 17 giorni dopo l’insorgenza dei primi sintomi ed 11 giorni dopo il ricovero ospedaliero. Per questo, dunque, il plasma convalescente potrebbe a maggior ragione rappresentare un’arma fondamentale per sconfiggere il Covid negli individui immunodepressi. Del resto, come sottolineato all’interno dello studio, “l’efficacia del plasma convalescente nei pazienti immunocompromessi e che hanno riportato sintomi per settimane o mesi apre la strada all’ipotesi che esso mantenga l’efficacia clinica fino a quando il ricevente non è sieronegativo e non vi è alcun danno parenchimale irreversibile”.

Certo, bisogna ricordare che lo studio è caratterizzato da alcuni limiti, motivo per cui “l’ipotesi di un significativo effetto benefico del plasma convalescente sulla mortalità nei pazienti immunocompromessi non può essere definitivamente dimostrata con i dati attuali”. Tuttavia, attualmente già si può parlare della presenza di “elementi molto forti” che “supportano l’efficacia” del plasma iperimmune nel ridurre la mortalità nei pazienti Covid immunocompromessi: un dato di fatto, quest’ultimo, alquanto rilevante, visto che “i pazienti immunocompromessi hanno un rischio maggiore di morbilità e mortalità associati alla malattia da Covid-19 perché presentano meno frequentemente risposte anticorpali ai vaccini”. Non solo, poiché anche il trattamento con anticorpi monoclonali – “ampiamente utilizzato per trattare il Covid-19” – sembra ormai essere sempre meno efficace. “Le evoluzioni del SARS-CoV-2 sono state associate a varianti resistenti agli anticorpi monoclonali e ad una maggiore virulenza e trasmissibilità del virus”, si legge infatti nello studio, in cui viene poi sottolineato che pertanto ultimamente “l’uso terapeutico del plasma convalescente è aumentato sulla base del presupposto che lo stesso contenga anticorpi potenzialmente terapeutici in ottica SARS-CoV-2 che possono essere trasferiti passivamente al ricevente del plasma”.

Il ricorso al plasma iperimmune, dunque, a quanto pare ultimamente sta iniziando ad essere rivalutato dopo che in passato esso non era stato molto considerato. A tal proposito non si può non fare riferimento all’Italia, dove finora la terapia basata sul plasma convalescente non è mai stata presa sul serio tra la stampa nazionale che a più riprese l’ha affiancata al concetto di “teoria cospirazionista” e le istituzioni che l’hanno ridimensionata. Ad aprile 2021, infatti, uno studio promosso dall’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) e dall’Istituto superiore di sanità (ISS) aveva sminuito il ruolo terapeutico del plasma convalescente con l’AIFA che, pur parlando dell’ipotesi di dover “studiare ulteriormente il potenziale ruolo terapeutico del plasma nei soggetti con Covid lieve-moderato e nelle primissime fasi della malattia”, sottolineava [2] che la ricerca non avesse “evidenziato un beneficio del plasma in termini di riduzione del rischio di peggioramento respiratorio o morte nei primi trenta giorni”. A risultati differenti e meno incerti, però, è poi giunto uno studio [3] pubblicato nel marzo 2022 sul New England Journal Of Medicine, dal quale è emersa una valutazione positiva degli effetti del trattamento con il plasma dei guariti in pazienti nelle prime fasi della malattia. Le evidenze in favore del plasma iperimmune, dunque, negli ultimi tempi si stanno moltiplicando, e la terapia sempre più si sta rivelando un importante mezzo con cui combattere il Covid-19.

In Italia il pioniere della sperimentazione del plasma iperimmune è stato il dottor Giuseppe De Donno. L’ex primario dell’ospedale Carlo Poma di Mantova subì pesanti attacchi volti a screditarlo quando difese le cure basate sul plasma all’inizio della pandemia, trattato come un santone nel dibattito pubblico per aver affermato di esser riuscito ad azzerare la mortalità tra i suoi pazienti Covid con una cura a bassissimo costo come quella a base di plasma. Si ritrovò addirittura i carabinieri dei NAS in corsia. Nel giugno 2021 si dimise dalla carica in ospedale e il 28 luglio 2021 si suicidò [4]. Questa nuova ricerca riporta alla mente la sua vicenda e le sue parole amareggiate quando, parlando del boicottaggio delle cure a base di plasma e dalla denigrazione della sua professionalità di medico, affermò: «un giorno la comunità scientifica dovrà rispondere ai cittadini di questo».

[di Raffaele De Luca]