- L'INDIPENDENTE - https://www.lindipendente.online -

Ex Ilva: lo Stato presta altri 680 milioni e reintroduce lo scudo penale per i dirigenti

Il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge denominato “Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale”, che prevede, tra le altre cose, un prestito di 680 milioni di euro da destinare ad Acciaierie d’Italia (ex Ilva) di Taranto. Il denaro, secondo quanto dichiarato dal ministero per le Imprese e il Made in Italy e da quello della Giustizia, che hanno presentato il dl, servirà a risollevare l’azienda, ad oggi a corto di liquidità principalmente per via dell’aumento dei prezzi del gas (anche se il dl Aiuti Bis dei mesi scorsi ha già stanziato per l’azienda un miliardo di euro). Con l’attuale decisione del Consiglio dei ministri, è la decima volta che lo stato italiano destina dei soldi pubblici alla società pugliese, la quale questa volta dovrebbe impiegare i fondi sostanzialmente per pagare i debiti contratti con le società energetiche Eni e Snam.

La notizia ha immediatamente messo in stato di agitazione diversi sindacati. L’Usb, Unione Sindacale di Base, ha sottolineato come il Governo sia andato in direzione contraria rispetto a quanto chiesto dal mondo del lavoro e dalle Istituzioni, cioè «di non erogare nessun ulteriore prestito pubblico in qualunque forma ad Arcelor Mittal, socio totalmente inaffidabile ed inadempiente, senza un preventivo riequilibrio della governance».

Tra l’altro il prestito arriva proprio dopo la decisione dell’Europa [1] di destinare alle casse del nostro Stato più di un miliardo di euro – dei 17,5 totali a disposizione – nell’ambito del programma Just transition fund (JTF) 2021-2027 per “una transizione climatica giusta” di Taranto, con la sua Ilva (e del territorio del Sulcis, in Sardegna), con lo scopo di riconvertire i territori interessati, dandogli una nuova spinta economica non basata più sul fossile ma orientata verso una riabilitazione ambientale. In altre parole, non più finanziando colossi come l’Ilva, ma investendo su nuovi progetti, portati avanti da piccole e medie imprese.

È lecito dunque, soprattutto in un’ottica di maggiori investimenti nell’energia pulita, chiedersi perché lo Stato italiano continui a salvare la società dal fallimento. Una prima risposta, semplice e diretta, è che ancora oggi il Governo reputa Acciaierie d’Italia una risorsa importante per l’economia nazionale. E da un certo punto di vista è effettivamente così. Basti pensare che attorno all’Ilva ruotano almeno 17 mila persone (tra dipendenti diretti e non) e che la vendita del suo acciaio nel 2021 si è aggirata attorno ai 1,2 miliardi di euro.

Di Taranto e di Ilva si parla praticamente da sempre, ma è nel 2012 che comincia la travagliata “storia moderna”, per come la conosciamo. In quell’anno infatti la procura di Taranto aveva ordinato il sequestro degli altiforni, valutati come altamente inquinanti. In realtà gli impianti non hanno mai del tutto smesso di funzionare, ma con l’affidamento dell’acciaieria a commissariamento, la loro capacità produttiva si è solo ridotta. In quegli anni, ormai consapevoli che un problema ambientale c’era, si è cercato contemporaneamente di avviare una serie di programmi volti a risanare gli ambienti e ridurre l’effetto dell’Ilva sul territorio [2] circostante. La società è praticamente andata avanti in questo modo, affrontando decine di inchieste, fino al 2018, quando l’intero impianto è stato acquistato, con bando pubblico, dal colosso mondiale dell’acciaio ArcelorMittal, che sostanzialmente aveva il compito di rimettere in piedi l’azienda, tentando di risanarla. Ma non è mai accaduto. È qui che sono entrate in gioco le Istituzioni. Dopo l’ennesimo fallimento, lo Stato italiano ha deciso di provare a diventare proprietario della società.

Per mezzo di Invitalia (l’Agenzia governativa italiana che si occupa degli investimenti dello Stato) ad oggi lo Stato possiede il 32% del capitale, in attesa che la quota superi la maggioranza a maggio del 2024. Il prestito appena approvato dal Governo, oltre a risanare parte dei debiti, è stato erogato anche con questa finalità. I 680 milioni sono infatti “convertibili”, trasformabili cioè in capitale sociale. Questo permetterà allo Stato di aumentare la propria “presenza” nell’azienda ancora prima del 2024, seppur continuando a mantenere rapporti con i soci privati. Lo conferma il comunicato pubblicato [3] dal Governo, secondo cui sono già stati presi i primi accordi tra ArcelorMittal e Invitalia. A quest’ultima, ad esempio, spetterà scegliere l’amministratore delegato, anche se non ancora in possesso della maggioranza, se non saranno rispettate determinate condizioni di “buona gestione”.

Il decreto reintroduce tra l’altro lo “scudo penale”, norme che tutelano l’azienda garantendogli di poter continuare a mandare avanti la propria produzione anche in caso di problemi penali (come ad esempio il sequestro disposto da un giudice). Una decisione che il senatore tarantino Mario Turco, vicepresidente del M5s, ha commentato così: «Con la reintroduzione dello scudo penale per lo stabilimento siderurgico ex Ilva, il governo Meloni ripristina di fatto il diritto di uccidere». Tale “protezione” è stata poi estesa a tutte le imprese che in qualche modo sono considerate di interesse nazionale.

Dura l’opposizione dei sindacati, che hanno indetto uno scioperare per l’11 gennaio, sotto Palazzo Chigi, fondamentalmente per chiedere chiarezza. A loro dire la gestione di ArcelorMittal è sempre stata fallimentare e il provvedimento può considerarsi «una resa incondizionata alla multinazionale».

Non solo. Turco ribadisce che il Governo Meloni vuole «mantenere o addirittura aumentare la produzione a carbone, altamente inquinante, infischiandosene della transizione ecologica e di una riconversione industriale green». Di tutt’altro parere Adolfo Urso, Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, secondo cui «Questo governo è capace di rilanciare l’Ilva, garantendo al contempo risanamento ambientale e occupazione». Motivo per cui, lo stesso Ministro, ha organizzato per il 19 gennaio un tavolo di confronto per discutere del futuro dell’azienda e a cui dovrebbero prendere parte forze sociali, sindacati e associazioni produttive, rappresentanti degli enti locali, azionisti pubblici e privati.

Ricordiamo comunque che solo pochi mesi fa la Corte europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) ha pronunciato quattro condanne [2] nei confronti dello stato italiano per le emissioni dell’Ex Ilva, sottolineando la loro pericolosità per la salute dei cittadini e la mancata tutela da parte delle istituzioni.

[di Gloria Ferrari]