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Manovra, il governo scavalca la commissione e crea un precedente pericoloso

Il 23 dicembre scorso, la Camera dei Deputati ha votato la questione di fiducia [1] posta dal governo sull’approvazione dell’articolo 1 della legge di bilancio. Nessuna sorpresa: la maggioranza ha confermato i propri numeri nell’Aula e la fiducia ha incassato 221 voti favorevoli, a fronte di 152 contrari e 4 astenuti. Prima della votazione e a lavori della commissione Bilancio conclusi, il governo Meloni ha però creato un pericoloso precedente per il corretto funzionamento dell’istituzione parlamentare nonché per la cooperazione leale tra Parlamento ed esecutivo. La maggioranza ha infatti presentato un emendamento che in sostanza ha riproposto delle voci di spesa precedentemente abolite in commissione da un’intesa bipartisan, riguardante cioè opposizione e maggioranza. Secondo l’articolo 86 del regolamento [2] della Camera, l’esecutivo può presentare emendamenti fino alla votazione in Aula del testo. Tuttavia, la strada intrapresa dalla maggioranza si presta a una prevaricazione funzionale del governo, dal momento in cui quest’ultimo, dopo aver posto la questione di fiducia, scavalca gli accordi raggiunti in sede referente, forte dei seggi a favore nell’Aula. Un precedente che potrebbe ripresentarsi con ampia discrezionalità nel corso della Legislatura.

L’emendamento [3] tab.2.201 presentato dal governo poco prima della seduta della Camera è stato votato e approvato dall’Aula. Le modifiche hanno assegnato ulteriori 400mila euro al Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste per il fondo nazionale della suinocoltura, nonché 20 milioni di euro al Ministero della Cultura per diverse operazioni “di acquisto di immobili di interesse archeologico”. Da notare come l’emendamento in sé sia privo delle finalità specifiche delle spese, che vengono chiarite soltanto oralmente e nella relazione tecnica. Come ha fatto notare la deputata Maria Cecilia Guerra, «quello che c’è scritto nell’emendamento permetterebbe destinazioni molto varie». Un problema di metodo, sia nella poca chiarezza degli atti sia nel superamento dei lavori della Commissione, organo cruciale per lo svolgimento dell’iter legislativo dal momento che esamina i disegni di legge prima che questi possano approdare in Aula.

I fondi destinati al ministero della Cultura erano già previsti nel testo originario della legge di bilancio, salvo poi essere eliminati in Commissione con il parere favorevole della maggioranza e tornati in extremis attraverso un emendamento. Secondo il regolamento della Camera, “trenta deputati o uno o più presidenti di gruppi che, separatamente o congiuntamente, risultino di almeno pari consistenza numerica possono presentare subemendamenti a ciascuno di tali emendamenti e articoli aggiuntivi anche nel corso della seduta, nel termine stabilito dal Presidente”. Nel caso della seduta del 23 dicembre, il termine consisteva in un’ora di tempo: dalle 17:30 alle 18:30. La comunicazione ai gruppi parlamentari è avvenuta attraverso una mail alle 17:36 e non via fax, come dichiarato erroneamente dal vicepresidente della Camera Giorgio Mulé mentre presiedeva la seduta. Ad ogni modo, le opposizioni hanno lamentato diverse difficoltà nel presentare subemendamenti a causa di “una comunicazione poco efficiente”.

Inoltre, a causa della questione di fiducia, i deputati hanno visto decadere gli oltre 1.200 emendamenti in Assemblea riferite all’articolo 1 del disegno di legge. Con l’approvazione della questione di fiducia vengono infatti respinte in automatico tutte le proposte emendative provenienti dall’Aula, svuotando il Parlamento di una delle sue prerogative, ovvero modificare il testo di un disegno di legge.

La questione di fiducia [4], a cui da più di dieci anni ricorrono in massa gli esecutivi italiani, qualifica un disegno di legge come fondamentale per l’azione del governo, al punto da legare la sua approvazione alla propria permanenza in carica. Infatti, nel momento in cui la fiducia viene rigettata, il presidente del Consiglio deve rassegnare le dimissioni. Ad ogni modo, negli ultimi anni l’istituto giuridico della fiducia è stato usato dai governi per evitare l’ostruzionismo dell’opposizione, che può manifestarsi ad esempio nella presentazione di migliaia di emendamenti a una legge, spesso simili tra loro e con modifiche marginali, volti a rallentare l’iter legislativo. A ciò si è aggiunto l’obiettivo di compattare la propria maggioranza parlamentare e annullare l’azione dei “franchi tiratori”, che operano grazie alla segretezza del voto. Va ricordato, infatti, che entro 24 ore dalla sua presentazione, la fiducia viene confermata (o rigettata) attraverso votazione palese o nominale dei parlamentari, che associano pubblicamente il loro nome alla propria preferenza. Dunque, in prossimità delle scadenze, gli esecutivi fanno sempre più spesso ricorso alla questione di fiducia per limitare il dibattito e velocizzare i tempi. L’istituto giuridico, da sporadica eccezione, si sta così ritagliando un ruolo sempre maggiore nella prassi governativa. Mettendo insieme i dati degli ultimi sei governi (Letta, Renzi, Gentiloni, Conte, Conte II, Draghi) risulta che circa 1 legge su 3 è stata approvata con voto di fiducia.

Nei primi due mesi di vita, il governo Meloni ha fatto ricorso alla questione di fiducia 3 volte – Manovra alla Camera, Aiuti quater e Decreto Rave –, con la quarta attesa in serata proprio per la legge di bilancio in esame al Senato. «Democrazia parlamentare significa che il parlamento decide, che il Parlamento è centrale. Dov’è la democrazia se il Parlamento non può discutere la legge di bilancio, che è la prima prerogativa dei parlamenti dalla fine delle monarchie assolute? […] Se al Parlamento togliete la legge di bilancio non c’è democrazia parlamentare e non c’è neanche il Parlamento […]. Quando si arriva al governo la Costituzione e il Parlamento non ci servono? È una vergogna quello che è accaduto con questa Manovra. Un maxi emendamento su cui è stata posta la fiducia perché il governo doveva emendare se stesso», dichiarava tre anni fa l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che allora sedeva tra i banchi dell’opposizione.

[di Salvatore Toscano]