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Polveri di tessuto, batteri e tinture naturali: colorare tessuti in modo meno impattante 

Sebbene il nero sia la tinta preferita da molti fashionisti, la moda è sempre stata caratterizzata da colori e stampe, parte espressiva e creativa dell’industria dell’abbigliamento. Quando si parla di colori nella moda, si deve necessariamente parlare di tintura, ovvero quel processo di lavorazione a umido (con presenza di acqua), che include i pretrattamenti (lavaggio e purga dei materiali quali filati, tessuti o capi finiti), la colorazione (tintura e stampa) e il finissaggio (effetti finali). Nei tempi antichi le tinture erano fatte usando pigmenti di origine naturale, sostituiti poi dalla loro versione sintetica per via della crescente richiesta di tessuti e capi di abbigliamento. Nel 1856 fu il chimico Perkin a fornire una risposta a queste nuove esigenze con la realizzazione della Malvina, il primo colorante sintetico con applicazioni industriali. Da lì in poi non siamo più tornati indietro…

Il problema dei processi tintori è nell’uso d’ingenti quantità di acqua, con stime che vanno dai 5 ai 5000 litri per tessuto secondo il tipo di materiale e di tecnologia usati. Per tingere il poliestere serve meno acqua, ma più energia elettrica; una macchina a verricello utilizza più di tre volte di un jigger, che però ottiene risultati peggiori nel fissare il colorante. In tutti i casi è importante tenere sotto controllo sia l’uso di sostanze chimiche [1] sia il trattamento delle acque reflue, perché siano smaltite correttamente. Nell’ottica di salvaguardare l’ambiente e sviluppare processi che siano più sostenibili, si stanno sperimentando alternative ai tradizionali approcci a “bagno d’acqua“, introducendo metodi di preparazione a secco, più efficienti e in grado di ridurre le emissioni, consumare meno acqua e utilizzare meno chimica grazie ad applicazioni più intelligenti. 

Da scarti tessili a polveri colorate

[2]Non è magia, è la tecnologia Recycrom brevettata dall’azienda italiana Officina39, che ha trovato il modo di realizzare coloranti trasformando vecchi abiti in polveri colorate. Le fibre del tessuto vengono cristallizzate [3] in una polvere fine utilizzando solo sostanze chimiche naturali e generando pigmenti utili per tingere tessuti e indumenti in cotone, lana, nylon o fibre miste. A differenza di altri coloranti, viene applicato come sospensione e non come parte di una soluzione chimica, il che gli consente di essere facilmente filtrato dall’acqua, abbassando i costi e riducendo gli effetti ambientali. Un sistema circolare, che permette anche ai brand di poter fare i colori direttamente dai propri scarti tessili (pre o post consumo). Un’altra possibile alternativa arriva dai batteri e della bio-ingegneria. Lo Streptomyces coelicolor, per citarne uno, è un microrganismo che cambia colore in risposta al pH del mezzo in cui si sviluppa: è possibile determinare il colore che produrrà alterando il suo ambiente. Esponendo il tessuto, precedentemente lavato, ai batteri immersi in un liquido contenente sostanze nutritive, si può assistere a una sorta di live painting: i batteri, mentre crescono, tingono dal vivo il tessuto. I coloranti batterici utilizzano meno acqua rispetto ai coloranti tradizionali e nello stesso tempo possono dare molteplici effetti e colorazioni. Indispensabile un lavaggio finale, perché l’ambiente batterico non è profumatissimo. Decisamente più asettica e con un sapore eco-punk, è la tintura effettuata con ultrasuoni, schiume o con tecniche “a spruzzo”. I tipi di coloranti sono sintetici, ma i macchinari, invece di usare il tradizionale bagno di colore, usano ultrasuoni che veicolano bolle microscopiche direttamente nel tessuto. Esiste anche una tintura digitale a spruzzo, per cui il tessuto viene fatto rotolare attraverso una macchina con ugelli diretti che spruzzano il materiale in assenza di acqua. È vero, si consuma comunque energia, ma l’impatto è notevolmente ridotto. Alcune tecnologie sono ancora in fase di sperimentazione, altre sono brevettate e in uso; in ogni caso ci vuole tempo affinché certe pratiche entrino a pieno regime nelle modalità produttive, ma il fatto che ci siano già delle alterative in ballo aiuta a vedere un arcobaleno in fondo al tunnel.

E le care, vecchie, romantiche tinture naturali?

Ritornare al naturale, in un mondo sopraffatto dal sintetico, sembra la soluzione perfetta. In realtà bisogna prima fare pace con la verità: le tinture naturali del passato erano semplicemente le tinture chimiche del tempo e ancora oggi, per far sì che i pigmenti naturali si leghino al tessuto, c’è comunque bisogno di mordenti (che contengono composti metallici per prevenire lo sbiadimento, che impediscono la biodegradabilità e possono presentare una serie di problemi di tossicità). Appurato ciò, questo tipo di colorazioni sono ritornate in auge non solo in versione artigianale per un mercato di nicchia, ma anche nella loro versione industriale. Sono diverse le aziende che stanno allevando piante ed elaborando i pigmenti affinché siano pronti per un uso industriale (e non nella pentola di casa). Questo è possibile perché alcune tintorie, che fino a qualche anno fa fornivano unicamente servizi di colorazione con prodotti sintetici, hanno preso in considerazione la possibilità di tingere con colori naturali [4], dedicando una parte della loro produzione a quest’aspetto (un passaggio agevolato dal fatto che il metodo di applicazione dei due sistemi è identico). Ciò significa che cambia il pigmento, ma non la sostanza: le quantità di acqua ed energia impiegate sono più o meno uguali. Senza considerare il fatto che, alla scala di produzione di moda odierna, pensare di produrre abbastanza materie prime naturali per soddisfare le esigenze di tintura dell’industria della moda senza compromettere gravemente le risorse della terra, è del tutto utopico. Sicuramente ci sono delle possibilità d’inserimento del naturale, ma su piccola scala. Quella piccola scala alla quale, forse, sarebbe auspicabile ritornare.

[di Marina Savarese]