- L'INDIPENDENTE - https://www.lindipendente.online -

Il governo vuole rivedere il reato di tortura per “tutelare” i poliziotti

Nel corso del 1° Congresso regionale del Nuovo Sindacato Carabinieri (NSC) Emilia-Romagna, svoltosi a Ferrara, il viceministro alle Infrastrutture e alla Mobilità Sostenibile Galeazzo Bignami ha manifestato l’intenzione di apportare modifiche al reato di tortura. Secondo [1] il viceministro, infatti, «Chi porta la divisa è sottoposto a procedimenti disciplinari o ancor peggio giudiziari semplicemente perché ha esercitato il suo ruolo di servitore dello Stato. Sul quel segmento noi interverremo». Il reato di tortura tuttavia, così come specificato dalla coordinatrice nazionale di Antigone, Susanna Marietti, non è pensato per punire specificamente gli agenti, ma chiunque si macchi di tali crimini, delineando un’aggravante se si tratta di pubblici ufficiali.

In Italia il reato di tortura esiste solamente dal 2017, nonostante il nostro Paese sia tra i firmatari della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984. Il testo dell’art. 613 bis del codice penale recita: “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”. Nel caso in cui i fatti vengano commessi “da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio”, e quindi con “abuso dei poteri in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio”, la pena aumenta fino ad arrivare a 12 anni. L’articolo specifica inoltre che sono tutelati da tale accusa i pubblici ufficiali che agiscano eseguendo “legittime misure privative o limitative di diritti”. Se dai fatti deriva la morte della vittima, la pena è l’ergastolo.

Il reato non è quindi formulato specificamente per andare a colpire le forze dell’ordine: costituisce tuttavia un’aggravante il fatto che a metterlo in atto sia un pubblico ufficiale. Il fatto che finalmente dal 2017 esista un quadro giuridico che determina tale tipo di reato ha reso evidente come, nelle strutture penitenziarie di tutta Italia, siano moltissimi i casi di agenti che si macchiano di tortura ai danni dei detenuti. Come riportato [2] dall’associazione Antigone, solamente nell’anno corrente “sono oltre 200 gli operatori penitenziari attualmente indagati, imputati o già passati in giudicato all’interno di procedimenti che riguardano anche episodi di tortura e violenza avvenuti nelle carceri italiane. Un dato che ci racconta di un problema evidente che si riscontra negli istituti di pena”.

“L’approvazione della legge sulla tortura, avvenuta nel 2017, ha certamente influito positivamente sull’emersione di queste condotte, aumentando la predisposizione dei detenuti a denunciarle e l’attenzione che la magistratura pone nell’indagarle e perseguirle” prosegue Antigone, che denuncia come tuttavia a mancare sia, a questo punto, un’adeguata attività di prevenzione che consti di iniziative quali la “formazione degli agenti penitenziari”, la costruzione di una vita più “distesa” all’interno degli istituti (per esempio contrastando il sovraffollamento e impegnando i detenuti in attività) e offrendo riconoscimenti a coloro che, nelle carceri, svolgono il proprio lavoro “nel pieno rispetto delle proprie funzioni e della dignità della persona”, ovvero “la maggior parte degli operatori”.

Secondo [3] il viceministro Bignami, tuttavia, «Chi sbaglia deve pagare, ma la struttura della norma è eccessiva perché non immagina una reiterazione e sanziona pesantemente anche singoli abusi». Il riferimento, a sua detta, è ad un poliziotto che avrebbe subito una condanna a 16 mesi per aver dato una manganellata a un manifestante, causandone la perdita di un dente. «Così c’è il rischio che diventi complicato per gli agenti fare il proprio mestiere» specifica il viceministro. Tuttavia, andare a rivedere la norma per apportarvi delle modifiche rischia di «neutralizzarne l’impatto», specifica la coordinatrice nazionale di Antigone, costituendo «un errore culturale, giuridico e politico gravissimo».

[di Valeria Casolaro]