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Nuove tensioni in Kosovo, i serbi protestano e si dimettono dalle istituzioni

Dopo un apparente periodo di calma, tornano a inasprirsi le tensioni nel Kosovo tra il governo di Pristina e la popolazione di etnia serba presente soprattutto nel nord del Paese dove costituisce la maggioranza. Tensioni in realtà mai risolte da quando nel 2008 l’ex provincia serba si autodichiarò indipendente con il supporto della NATO. Lo scontro strisciante non è mai realmente terminato e lo scorso fine settimana è tornato in superficie con diecimila serbi che hanno manifestato a nord di Mitrovica, città nella parte settentrionale del Paese che il fiume Ibar divide in una zona a prevalenza serbo-ortodossa e in una a prevalenza albanese-musulmana, sventolando le bandiere di Belgrado e ostentando cartelli con la scritta “il Kosovo è Serbia”. Gli attriti tra i due governi erano già riemersi l’estate scorsa [1] a causa delle disposizioni del governo di Pristina circa la reimmatricolazione obbligatoria dei veicoli con targa serba da sostituire con quella kosovara, una questione simbolica che trova la ferma opposizione della popolazione serba e del governo di Belgrado che, non riconoscendo il Kosovo come Stato indipendente, non accettano l’ipotesi di doverne esibire le targhe sull’auto. Inoltre, negli ultimi giorni la decisione di molti pubblici ufficiali serbi di ritirarsi dalle istituzioni del governo di Pristina ha ulteriormente alzato il livello dello scontro che per ora è limitato all’ambito politico-diplomatico.

Di grande importanza nella vicenda risulta anche il ruolo di mediazione dell’Unione europea tra i due territori una volta appartenenti alla Jugoslavia: se, infatti, la Ue è riuscita a trovare un accordo sulla questione dei documenti di modo che gli abitanti delle due zone possano viaggiare liberamente tra Kosovo e Serbia utilizzando le proprie carte d’identità (serbe o kosovare), non è riuscita a fare altrettanto sulla questione delle targhe, in quanto ha riconosciuto la legittimità del provvedimento. Si è dunque limitata a procrastinare la questione: l’entrata in vigore della legge sulle targhe, infatti, ad agosto era stata posticipata di due mesi e il governo di Pristina aveva introdotto un piano a tappe: fino al 21 novembre chi sarà trovato a circolare con targa serba verrà ammonito verbalmente. Dal 21 novembre al 21 gennaio scatteranno le multe, a partire da 150 euro, mentre dal 21 gennaio al 21 aprile 2023 chi non cambia la targa sarà obbligato a coprirla con una provvisoria kosovara. Dopo il 21 aprile, la polizia procederà coi sequestri dei veicoli. Inoltre, in Kosovo è presente fin dal 1999 una missione della Nato (denominata K-For) che ha fatto sapere di seguire e monitorare con grande attenzione la situazione sul terreno, con il rafforzamento delle proprie pattuglie, schierate ai principali valichi di confine, dove a fine luglio i serbi in una notte di massima tensione avevano eretto barricate e blocchi stradali.

Il presidente serbo, Alxander Vucic, ha affermato [2] all’emittente televisiva “Pink” che «La decisione dei serbi del Kosovo di boicottare le istituzioni di quel Paese è storica». I pubblici ufficiali serbi di Pristina hanno annunciato di voler sospendere i loro pubblici impieghi «ogni volta che Pristina non adempie ad alcuni dei suoi obblighi o violi l’accordo di Bruxelles», mentre Vucic ha ammesso di averli dissuasi «almeno venti volte», nonostante si dica convinto che ciò prima o poi sarebbe dovuto accadere, dopo numerose negoziazioni infruttuose con le autorità kosovare in merito alla reimmatricolazione delle targhe. Sempre secondo il Presidente, la situazione in Kosovo si calmerà «se gli Stati Uniti agiranno in modo giusto e corretto, in modo che K-For ed Eulex (la missione dell’Unione Europea) svolgano le attività di polizia nel nord. Se saranno gli albanesi a iniziare tali attività, temo che ciò porterà a un disastro», ha avvertito Vucic.

Intanto, si registra [3] un massiccio numero di dimissioni da parte di deputati, giudici e poliziotti serbi: a dimettersi sono stati in particolare i deputati di Srpska Lista, la maggiore forza politica dei serbi del Kosovo, i giudici e il personale amministrativo dei tribunali e oltre 300 poliziotti che, recandosi nei vari commissariati, hanno consegnato uniformi e armi in dotazione. Da parte sua, il presidente del Kosovo, Albert Kurti, ha accusato Vucic di voler destabilizzare Pristina, incoraggiando le dimissioni dei pubblici ufficiali e rispondendo a interessi di Mosca, alludendo alla storica alleanza tra Serbia e Russia. Lintervento diplomatico del Cremlino non si è fatto attendere, esternando la sua preoccupazione per l’area dei Balcani per tramite del portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova: «Siamo allarmati per l’aggravarsi della situazione intorno al Kosovo, dove le cosiddette autorità di Pristina stanno ancora deliberatamente alimentando la tensione sotto l’occhio passivo o addirittura con il sostegno diretto dei loro sponsor a Washington e dei suoi alleati europei. Senza prendere provvedimenti efficaci per porre fine alle provocazioni dei radicali albanesi kosovari, l’Occidente sta deliberatamente spingendo la situazione a un conflitto aperto», ha avvertito [4] il diplomatico russo.

Anche il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, è intervenuto affermando che l’Italia deve «svolgere un ruolo da protagonista» per garantire la stabilità nei Balcani, agevolando una soluzione diplomatica. Tuttavia, Belgrado è convinta che l’“Occidente” non stia facendo abbastanza per trovare una soluzione pacifica, ma stia piuttosto appoggiando Pristina: il ministro degli Esteri serbo, Ivica Dacic, ha affermato, infatti, che nessuno in Serbia crede che l’Ue e le potenze occidentali non possano influenzare Pristina e, con riferimento a Kurti, ha asserito [5] che «se le grandi potenze non possono ottenere nulla da lui, o sono impotenti o c’è un tacito accordo tra le due parti».

Si tratta, dunque, di una situazione di estrema incertezza che richiede al più presto una soluzione negoziale con l’impegno di tutte le parti coinvolte, onde evitare che la situazioni degeneri e che i Balcani diventino il secondo terreno di conflitto in Europa dopo l’Ucraina.

[di Giorgia Audiello]