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Il nuovo patto di stabilità UE mette l’Italia a rischio commissariamento

L’Unione Europea ha preparato una bozza di riforma del Patto di Stabilità che sarà approvata mercoledì prossimo dalla Commissione: dovrà poi essere ulteriormente avallata dagli Stati membri entro il 2023 per entrare in vigore a partire dal 2024. Dopo la sospensione del Patto a causa delle difficoltà finanziarie degli Stati seguite alla crisi pandemica, prima, e a quella energetica, dopo, le istituzioni europee hanno colto l’occasione per riformare i dettami finanziari europei in vista del ripristino dei cosiddetti parametri di Maastricht che avverrà nel 2024. Al piano di riforma – che lascerebbe comunque inalterati i criteri del deficit non superiore al 3% del Pil e del debito pubblico al di sotto del 60% del Pil – hanno lavorato il commissario italiano Paolo Gentiloni e il lettone Valdis Dombrovskis. Se da un lato, la riforma in questione presenta dei vantaggi in quanto allenta alcuni vincoli di bilancio rendendoli meno stringenti, dall’altra aumenta il controllo sui bilanci nazionali e prevede un rafforzamento delle misure sanzionatorie per quegli Stati con un rapporto debito-Pil troppo elevato. In altre parole, il piano della Commissione è conveniente per quei Paesi considerati “virtuosi”, ma comporta la possibilità concreata di un vero e proprio commissariamento per quelli – come l’Italia – che hanno un’eccessiva esposizione finanziaria, così come richiesto soprattutto dai Paesi del nord Europa, i cosiddetti “frugali”.

Nel dettaglio, il “nuovo” Patto di Stabilità prevederebbe [1] l’eliminazione della regola per cui chi ha un debito superiore al 60% del Pil deve ridurre “l’eccesso” di un ventesimo ogni anno. Per l’Italia ciò consisterebbe in un intervento insostenibile, pari al taglio di almeno 50 miliardi l’anno di spesa pubblica. Si tratta di una regola che, a ben guardare, non è mai stata applicata da nessuno stato membro e che risulta ormai inattuabile per la maggioranza dei Paesi Ue. L’altro parametro che scomparirebbe è quello che stabilisce l’obbligo di migliorare i saldi di bilancio dello 0,5% per chi non è in pareggio tra entrate e uscite. Due misure, dunque, che avvantaggerebbero certamente la politica fiscale di Roma. Tuttavia, il piano di riforma prevede anche una sorta di nuovo criterio, la cui applicazione andrebbe ad erodere definitivamente la già debolissima sovranità economica de Paese: si tratta dell’intervento di Bruxelles nelle decisioni economiche di quegli Stati che hanno un rapporto debito/Pil superiore al 90%, considerato un “debito a rischio”. In questo caso, la Commissione potrà stabilire e imporre un percorso cogente di risparmio, entrando a gamba tesa nelle decisioni economiche nazionali, lasciando scarsi o nulli margini di autonomia ai governi. I debiti al di sotto del 90% del Pil, come quello della Germania, ma anche della Francia che ha comunque un debito superiore al 90% seppure di poco, non verranno presi in considerazione.

Nel momento in cui il Patto di Stabilità riformato entrerà in vigore, i Paesi eccessivamente indebitati come l’Italia dovranno concordare un piano di rientro quadriennale con la Commissione, che può diventare settennale se il Paese in questione chiede una “dilazione” in virtù del raggiungimento di determinati obiettivi. Le istituzioni comunitarie potranno controllare passo dopo passo le politiche dei governi nazionali, che dovranno superare un esame ogni anno in concomitanza con la presentazione della legge di Bilancio. Il modello è quello del Pnrr che prevede il raggiungimento di obiettivi e traguardi con le relative verifiche semestrali da parte della Commissione. Dal 2024, dunque, le prove da superare saranno due: quella inerente al Pnrr e quella alla legge di Bilancio, per cui in sostanza Roma si troverà impossibilitata a gestire qualunque aspetto del quadro macroeconomico e delle cosiddette riforme che sono prestabilite da Bruxelles e non discutibili.

L’architettura economica che permea l’Unione europea, fatta di tagli di spesa pubblica e contenimento del deficit di bilancio, è improntata sull’ideologia liberista che demonizza l’intervento dello Stato nell’economia per lasciare campo libero e dominio incontrastato ai famigerati “mercati”. Tuttavia, il liberismo, inculcato come un dogma nei sistemi politici, accademici e mediatici occidentali, non è l’unico modello economico esistente né il più funzionale, come hanno dimostrato le crisi ricorrenti degli ultimi decenni. Di certo si è dimostrato quello che meglio si attaglia agli interessi della speculazione e del grande capitale, erodendo al contempo i servizi che lo stato dovrebbe garantire ai cittadini, come ben prova la politica di spending review che in Italia ha contribuito a demolire il sistema sanitario, l’istruzione e altri servizi essenziali. L’applicazione effettiva del Patto di Stabilità riformato, dunque, oltre a privare l’Italia di alcuni ultimi residui di sovranità, porterebbe con ogni probabilità a compimento il processo di smantellamento dello Stato sociale per mezzo di un’austerità sempre più rigida.

[di Giorgia Audiello]