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Metafore nel pallone

Nel pieno di una crisi di pessimismo, ti viene voglia di dare un calcio a tutto, ti senti come un carcerato ai lavori forzati con una palla ai piedi.

Il tempo passa inesorabile, ok anche felicemente, ma con qualcuno ti senti arrivato ai tempi supplementari, con un altro addirittura ai calci di rigore.

È vero che la vita è tutto un dribbling, con avversari anche fallosi, e che devi saper giocare sia in attacco sia in difesa, perciò vorresti essere un’ala tornante, uno di quelli che si muovono a tutto campo senza paura di andare in fuori gioco.

Certo, a nessuno piace finire in panchina, per bestemmiare poi negli spogliatoi, e menarsi con chi ti ha sostituito.

Ma il cartellino, da giallo è diventato rosso, e ora tu sei fuori. Colpa degli anni, del menisco o della vodka di ieri sera, la partita me la finisco in tribuna, ben lontano dal presidente perché gli sputerei in un occhio.

Lei mi ha scritto un sacco di volte, mi ha detto che dopo ieri sera mi concede comunque la prova del VAR, se voglio ancora dimostrarle che ho almeno vinto nel possesso palla.

Non so che cosa pensare, mi sento davvero nel pallone, devo cercarmi uno psicologo che mi faccia da allenatore nei tempi morti, che mi insegni a fluidificare, o che quanto meno mi faccia salvare in corner.

Mi sento prigioniero del risultato, il mister detesta i pareggi, di ultras non ne posso più, ne sono pieni gli stadi ma anche le strade e i social, ogni angolo di mondo pullula di tifosi ignoranti.

Non è però che avranno ragione loro? A me non passa nessuno il pallone, mai un assist, devo sempre correre come un pazzo.

Mi è venuta voglia di cambiare ruolo, di provare a fare il portiere. In fondo sono ambidestro, faccio molta palestra, sono alto, ma qualcuno mi ha detto che mi manca l’istinto per reagire in un attimo.

Sono forse soltanto prigioniero di metafore: cioè che bisogna fare squadra, che nella vita le partite non finiscono mai, che bisogna saper cambiare maglia, come fanno gli onorevoli, che non bisogna avere paura del fischio finale, che il pressing è stressante ed è meglio giocare d’anticipo.

Io spero sempre nei tempi di recupero, in quei maledetti minuti in cui puoi anche ribaltare il risultato. Minuti che se stai vincendo non finiscono mai.

Il campionato comunque è lungo e anche gli altri possono perdere, non c’è andata senza ritorno, io devo difendere la mia bandiera, rispettare il silenzio e stare fermo quando suonano l’inno, siamo venuti fin qui per dimostrare chi siamo, tu non deludermi.

Ma allora non romperetemi le palle, lasciatemi giocare in pace. Anche se in fondo ogni partita è invece una piccola guerra, una dimostrazione di forza.

E pensare che avevo cominciato in quel campetto sotto le case dove la gente mi applaudiva dai balconi.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]