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Camminare, pensare, scrivere

In questi ultimi mesi, per ragioni personali, ho sperimentato difficoltà nel camminare, che oramai ho quasi totalmente superato. Questa esperienza, per una serie di curiose circostanze, mi ha suscitato varie riflessioni, mettendomi in contatto casualmente, chissà, quasi magicamente, con vari libri che trattano il tema del camminare: romanzi, saggi, racconti soprattutto degli scrittori tedeschi tra Otto e Novecento. Ultimamente il testo che mi ha veramente colpito è quello di Erling Kagge, Camminare. Un gesto sovversivo, uscito da Einaudi nel 2018 e rimesso in circolazione da poco come supplemento del Corriere della Sera.

L’aspetto più interessante è il parallelismo tra pensare e camminare, quel “legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio” di cui parla Kundera nel romanzo La lentezza, ricordato da Kagge, secondo il quale si forma quasi una matematica esistenziale, per cui “il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria” e analogamente “il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio”.

Ciò significa che c’è un rapporto tra il nostro ritmo di camminata e il modo in cui pensiamo. Un ritmo regolare, non troppo intenso, favorisce la riflessione, perfino la meditazione, un ritmo più accelerato genera sospensione del pensiero, dimenticanza. Certe sensazioni svaniscono se accelero il passo, ritornano se rallento. Suggestiva la  riflessione di Kagge, grande camminatore ed esploratore: “La vita dura di più quando cammini. Camminare dilata ogni attimo“.

Anche per me riprendere a camminare ha significato riprendere a pensare in un certo modo, vedere davanti a me orizzonti da avvicinare, da raggiungere, aperture mentali che si affacciano, piccole o grandi sorprese indotte da ciò che incontri, dialoghi silenziosi con la natura o con la città, emozioni indotte, non preordinate, sondaggi nella propria personalità o in quella delle persone che intercetti, e poi rumori o suoni che non avresti previsto.

Kagge osserva giustamente che camminare è un po’ come leggere un libro, lasciare lavorare prima la corteccia cerebrale che discerne l’importanza di ciò in cui ci si imbatte e poi la valutazione e la elaborazione complessiva delle impressioni e informazioni raccolte.

Camminare ha a che fare con il pensare e con il leggere, ma anche con lo scrivere, perché parte di ciò che notiamo, nelle lente passeggiate o nelle corse, mette in relazione il muoversi e il commuoversi, il fare esperienza e l’alimentare la memoria. Scrivere allora non soltanto come registrare e appuntarsi passaggi del plot che stiamo vivendo, o di un altro che stiamo fantasticando, ma anche come emozione “verso l’infinito del mondo”, secondo quanto affermava Marguerite Duras: “Si dovrebbe poter fare un certo film, un film di insistenze, di passi indietro, di nuovi inizi e poi abbandonarlo e filmare anche questo abbandono” (Scrivere, trad. it. Feltrinelli 1994, p. 68). Mettersi in cammino è come scrivere, e viceversa: “Scrivere è tentar di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse. Lo sappiamo solo dopo” (p.44). “Scrivere era l’unica cosa che popolava la mia vita e che la incantava” (p. 11).

Mettersi in cammino con una strada davanti equivale allora a mettersi a scrivere con il desktop acceso o con la pagina bianca, misurare una solitudine, produttiva perché si animerà di nuovi input, di nuovi passi, di nuovi incontri.

Ho sperimentato la fatica in tutto questo, nel camminare e nello scrivere. In tutti e due i casi  mi sono dovuto fermare dopo pochi metri, dopo poche frasi, per riprendere fiato, pensiero e ricominciare pensando che le pagine, cioè i sentieri, attendevano i miei passi e sarei potuto arrivare, se lo avessi voluto, un’altra volta ancora lassù, dove il paesaggio sembrava una pagina perfetta, divina ma per il momento soprattutto mia, potendomi sentire per un attimo il destinatario, non soltanto il camminatore o lo scrittore, di tutto questo.

Penso alle splendide parole di Henry David Thoreau che hanno riempito di senso questi recenti anni che, spero, ci siamo lasciati alle spalle. Il suo Walden è un capolavoro perché vuole alimentare la vita con un ritmo naturale, individuando nella fretta, nell’insidia ad esempio delle ferrovie, un superamento del Tempo, una ingiuria contro il vivere umano, resa tuttavia sopportabile dalle immagini che si riescono a creare: “Il fischio delle locomotive penetra tra i miei boschi d’estate e d’inverno, risuonando come il grido di un falco che vola sopra il campo di un contadino” (trad.it [1]. Rusconi, p. 118); e poi: “I venti che passavano sopra la mia dimora erano come quelli che accarezzano le cime delle montagne, trasportando le melodie spezzate, o forse solo i frammenti celestiali, della musica terrestre” (p. 87).

Mi torna in mente Marcel Proust che in chiusura della Ricerca del tempo perduto, nelle ultime pagine de Il tempo ritrovato, scriveva che il semplice ascolto di uno scampanellio gli aveva destato la sensazione di un passato indefinitamente trascorso che ignorava di portare con sé.

Scrivere, pensare, camminare: alimentare, insomma, con consapevolezza e, nello stesso tempo, con abbandono, ciò che Proust chiamava suggestivamente “la cognizione del tempo incorporato“, un tempo che non puoi fare a meno di portare con te.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]