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9 anni fa la strage di Lampedusa: qualcosa è cambiato?

Oggi ricorre l’anniversario della strage del 3 ottobre: 9 anni fa 368 persone morirono nel naufragio di Lampedusa, tra cui 83 donne e 9 bambini. All’alba del 3 ottobre 2013 un peschereccio di una ventina di metri proveniente dalla Libia si ribaltò davanti alle coste della piccola isola siciliana, provocando quella che fu la più grande tragedia dell’immigrazione dal dopoguerra. L’evento ha segnato il calendario istituzionale del nostro Paese, con l’istituzione della Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Ma, nella realtà, non è stato seguito da alcun cambiamento reale nella gestione dei flussi migratori, né nella rimozione di quelle che sono le cause profonde delle migrazioni. Di “stragi di Lampedusa” se ne ripetono ogni giorno, semplicemente con numeri di vittime inferiori e con una copertura mediatica meno presente ed interessata. 

Da quel tragico giorno ad oggi, infatti, le morti non si sono fermate: quasi 25.000 migranti e rifugiati hanno perso la vita nel Mediterraneo, la maggior parte dei quali (quasi 20.000) lungo la rotta del Mediterraneo centrale. Solo nel 2022, sono già 1.400 le persone disperse nel Mediterraneo. A renderlo noto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), l’Agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr), e il Fondo delle Nazioni unite per l’Infanzia (Unicef), presenti oggi a Lampedusa per la commemorazione della strage organizzata dal Comitato 3 Ottobre. Questa mattina si è infatti tenuta la tradizionale marcia, conclusasi con il lancio in mare di una corona di fiori per ricordare tutte le vittime annegate nel Canale di Sicilia. Presenti anche le organizzazioni della società civile, i rappresentanti delle istituzioni governative locali, e centinaia di studenti di tutta Europa e le istituzioni, tra cui il presidente della Camera Roberto Fico. 

«Chiediamo alle istituzioni europee che il 3 ottobre diventi ‘Giornata europea della memoria e dell’accoglienza’» ha dichiarato il presidente del Comitato 3 Ottobre Tareke Brhane. «Per noi del comitato, il 3 ottobre resta una data che ci ricorda come il salvataggio di vite umane debba sempre restare la priorità numero uno e come questa responsabilità debba essere una responsabilità condivisa da tutti gli Stati membri dell’Unione Europea» ha aggiunto Brhane. 

Durante la giornata, tante sono state le testimonianze di chi è sopravvissuto. Solom, eritreo, di 32 anni, ogni anno torna a Lampedusa per portare dei fiori ai suoi amici che non ce l’hanno fatta. «Ero partito con loro, avevano tutti 22 e 23 anni. Sono l’unico che si è salvato». Fanus ancora si chiede come sia riuscita a sopravvivere al naufragio, dal momento che non sa nuotare. Il 3 ottobre del 2013 aveva 16 anni ed è stata l’unica a riconoscere lo scafista e a denunciarlo. Adal, invece, è stato il primo ad arrivare, da naufrago, a Lampedusa e a ricostruire i nomi delle vittime. Ha perso suo fratello nella tragedia che determinò 368 vittime. Tante le storie e i ricordi dei sopravvissuti, che si intrecciano ai racconti dei pescatori e di chi è intervenuto quella notte. 

Per quei 368 morti, ad oggi, hanno pagato due persone: Mouhamud Elmi Muhdin, di origine somala, condannato a 30 anni e riconosciuto dai superstiti come uno degli organizzatori del viaggio, Khaled Bensalem, proveniente dalla Tunisia, indicato come scafista e condannato a 18 anni. Ma i meccanismi che hanno portato alla strage e in questi anni potevano essere cambiati sono rimasti gli stessi. Secondo “The big Wall [1]”, un’ inchiesta di ActionAid del 2021 sulla spesa per il contrasto all’immigrazione irregolare, dal 2015 l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro di fondi propri o comunitari per fermare gli sbarchi nel Mediterraneo. Il Bel Paese ha gestito complessivamente 317 linee di finanziamento, con i fondi divisi in otto capitoli di spesa, di cui solo una piccolissima parte (poco più di 7 milioni) dedicata alle migrazioni per vie legali , che ancora rimangono una modalità quasi impossibile di accesso all’Europa. 

La strategia italiana nei confronti della Libia, snodo cruciale delle rotte migratorie, ricalca quella generale dell’Unione messa a punto durante il vertice di Malta del 2015: costituzione di nuove forze di pattugliamento, supporto ai centri di detenzione, protezione in loco dei rifugiati, rimpatri, raccolta di dati sulle frontiere. A questo va aggiunta la minaccia costante di ridurre i finanziamenti ai partner africani che non siano abbastanza cooperativi nella gestione dei migranti. Nello stesso vertice, infatti, fu creato il Fondo fiduciario per l’Africa dell’Ue, con l’obiettivo di finanziare progetti di sviluppo per frenare le migrazioni. Dal 2017 il Fondo ha beneficiato di 123 milioni di euro, ma non vi sono indicatori chiari per misurare il successo di queste operazioni anche perché, nel frattempo, istituzioni e multinazionali europee, con attività commerciali ed estrattive, reiterano quei meccanismi di impoverimento, repressione e devastazione ambientale da cui migliaia di persone cercano di fuggire ogni giorno. Solo per citare due casi, la compagnia petrolifera francese TotalEnergies sta generando un disastro socioeconomico in Mozambico [2], mentre l’olandese Shell, grazie ad una recente sentenza, è stata bloccata nella sua ricerca di gas e petrolio al largo della “Wild Coast” [3] per le concessioni ricevute dal governo in maniera illegale. Sono anche azioni come queste, che l’Europa continua a foraggiare, a ingrossare le fila delle migrazioni. 

[di Sara Tonini]