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In Iran non si fermano le proteste contro il governo

Ad oltre dieci giorni dal loro inizio non si fermano le proteste infuriate in Iran dopo la morte di Mahsa Amini, la ventiduenne di origini curde picchiata a morte dalla polizia morale perché indossava il velo in modo errato. Se l’episodio che ha coinvolto Mahsa ha rappresentato la scintilla che ha fatto esplodere l’ira della popolazione, dietro alle proteste si cela molto più di questo: la frustrazione e il malcontento di un popolo che da oltre 40 anni vive oppresso dall’establishment teocratico e che sta chiedendo un radicale cambio di governo. Il numero delle vittime è incerto, anche se alcune associazioni arrivano a parlare di almeno 180 morti e oltre 8000 persone arrestate.

Quelle che stanno attraversando l’Iran sono le proteste più grandi dalle rivolte del 2019 per il prezzo del carburante, durante le quali Reuters [1] riferì che furono uccise almeno 1500 persone. Nella giornata di ieri ha preso posizione anche il principale sindacato degli insegnanti, che ha invitato [2] educatori e studenti a scioperare nella giornata di oggi e di mercoledì prossimo sostenendo che “l’apparato repressivo di questo governo, i cui interi sforzi mediatici e propagandistici sono stati diretti a dimostrare che Mahsa è morta di morte naturale, non teme la contraddizione di sparare a persone innocenti nelle strade”.

Per la televisione [3] di Stato sono 41 le persone uccise, molte delle quali sarebbero agenti di polizia, della sicurezza e delle forze paramilitari Basij, ovvero le forze fondate [4] dall’ayatollah Khoemini dopo la rivoluzione del 1979 incaricate di far rispettare i valori e la morale islamica contrastando l'”assalto” della cultura occidentale. Gli arrestati, invece, sarebbero almeno 739, dei quali 60 donne. Le autorità non hanno ancora diffuso un bilancio ufficiale delle vittime, ma i media statali dichiarano che la maggior parte delle persone arrestate siano membri afferenti all’ISIL, al Komala – partito che sostiene l’indipendenza curda classificato “terrorista” da Teheran – e al Partito democratico del Kurdistan iraniano. Nelle giornate di sabato e domenica il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) ha anche bombardato alcune zone della regione curda nel nord dell’Iraq, sostenendo che lì si trovassero alcune postazioni del Komala.

Tali numeri tuttavia discostano molto da quelli diffusi dai partiti di opposizione e dalle associazioni per la tutela dei diritti umani. Secondo il PMOI (People’s Mojahedin Organization of Iran), il principale partito di opposizione del Paese, sarebbero già 180 le persone uccise nel corso delle proteste, diffusesi a macchia d’olio in 146 città sparse in tutte e 31 le province. Sarebbero 8000, invece, le persone arrestate dal governo. La pagina Twitter del partito pubblica continuamente immagini della popolazione in lotta per le strade e dei violenti scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine iraniane, come anche la pagina di Hengaw [5], l’associazione per la tutela dei diritti umani nel Kurdistan iraniano.

Nonostante in numerose città iraniane sia stato messo in atto un blocco mirato di Internet, con interruzione del funzionamento di piattaforme quali Whatsapp, Insragram, LinkedIn e Skype, sui social si moltiplicano foto e video di quanto avviene nel corso delle proteste, come in quello diffuso dal profilo di Patrik Zaki nel quale si vede la polizia accerchiare una donna senza velo e scaraventarla a terra, facendole violentemente sbattere il collo contro il marciapiede.

Le autorità iraniane insistono nel sostenere la tesi secondo la quale Mahsa Amini [15] non sia stata affatto picchiata, ma sia morta in seguito a condizioni pregresse, dichiarazioni più volte smentite dai genitori della ragazza. Il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato di aver commissionato indagini sulla morte della giovane, originaria del Kurdistan iraniano, ma è stato lui stesso a richiedere, negli ultimi mesi, un maggiore intervento e controllo della polizia morale. Raisi ha inoltre promesso di “affrontare con decisione coloro che si oppongono alla sicurezza e alla tranquillità del Paese”. In piazza sono scesi a manifestare anche i gruppi filogovernativi che appoggiano le autorità iraniane nella loro attività di contrasto ad un comportamento “contrario alle norme” – l’ultima si è svolta nella giornata di ieri -, ma queste non sembrano quasi mai subire l’ingerenza da parte delle forze di polizia, contrariamente a quanto accade nel corso delle manifestazioni antigovernative.

In un articolo apparso sul Time [19] il 19 settembre la giornalista americana di origini iraniane Tara Kangarlou spiega come la protesta contro l’hijab abbia costituito solamente il pretesto per far esplodere la frustrazione di un popolo oppresso da decenni dalle imposizioni di carattere religioso del governo. Il sistema governativo, spiega la giornalista, avrebbe mostrato la sua “doppiezza” già a fine agosto, quando ha manifestato l’intenzione di imporre multe pecuniarie alle donne che avessero infranto le “regole dell’hijab”, svelando “i suoi infiniti stratagemmi per fare soldi in nome della religione e della virtù”. La pretesa delle donne, elementi imprescindibili di questa protesta, riguarda la libertà di scelta: sono milioni, spiega Kangarlou, quelle che rivendicano il diritto di indossare l’hijab, ma altrettante sono quelle che ne farebbero a meno. In un tale contesto, l’incitamento a togliersi il velo rivolto alle donne iraniane dall’Occidente non ha sortito alcun effetto se non spingere il governo ad adottare misure di controllo ancora più rigide. Se a dare il via alle proteste è stata quindi la rivendicazione di un diritto prettamente femminile, con le donne che hanno bruciato gli hijab in piazza e si sono tagliate i capelli, questo non ha costituito altro che la scintilla che ha fatto esplodere il malcontento di un intero Paese. A tal proposito, un utente su Twitter ha commentato [20] un post del New York Times chiedendo di correggere il titolo dell’articolo La dissidente esiliata che alimenta le proteste contro l’hijab in Iran: “Non si tratta di una protesta contro l’hijab, ma di una rivoluzione contro la Repubblica islamica IN Iran! Smettete di chiamarla ‘protesta contro l’hijab’ o ‘movimento delle donne’ o ‘proteste femministe’!”.

Non gradendo l’ingerenza dell’Occidente nella questione, nella giornata di ieri il governo iraniano ha convocato gli ambasciatori britannico e norvegese. In particolare, il ministro degli Esteri iraniano ha criticato il “carattere ostile” dei media londinesi in lingua persiana e la “posizione interventista” dello speaker del parlamento norvegese Masud Gharahkhani, che ha espresso su Twitter sostegno ai manifestanti affermando [21] che “Se i miei genitori non avessero fatto la scelta di fuggire nel 1987, sarei stato uno di quelli che combattono per le strade con la mia vita in gioco”. Una forte critica è stata rivolta anche dal governo di Teheran nei confronti degli Stati Uniti, i quali hanno manifestato il loro appoggio ai manifestanti: per Teheran questo comportamento contraddice gli appelli americani alla stabilità nel Paese e mina gli accordi sul nucleare.

[di Valeria Casolaro]