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Elezioni: 5 milioni di italiani all’estero non potranno votare per i partiti anti-sistema

Circa 5 milioni e mezzo di italiani non voteranno il 25 settembre come gli altri, ma hanno già ricevuto le schede elettorali a casa ed eserciteranno la loro preferenza per corrispondenza entro il 22 settembre: sono quelli residenti all’estero, il cui diritto di voto è previsto dall’articolo 48 della Costituzione. Nelle schede elettorali a loro disposizione vi sono però meno liste rispetto a quelle votabili in Italia, ed in particolare mancano tutti i partiti di opposizione e anti-sistema. Italia Sovrana e Popolare, Italexit, Unione Popolare, Vita, Alternativa per l’Italia: nessuno di questi movimenti potrà ottenere il loro voto e concorrere ai 12 seggi eletti dagli italiani iscritti all’AIRE (Anagrafe italiani residenti all’estero).

Il motivo per cui queste liste non saranno presenti è che non sono riuscite a raccogliere le firme necessarie per concorrere nelle circoscrizioni all’estero. Secondo la normativa, infatti, ogni lista per essere ammessa doveva raccogliere un numero minimo di 250 firme in ognuna delle quattro circoscrizioni estere (diminuite dalla soglia standard di 500 a causa dello scioglimento anticipato delle Camere) entro e non oltre il trentaquattresimo giorno prima delle votazioni. 250 firme possono sembrare poche, ma i tempi ristrettissimi e la complessità di allestire raccolte di firme in Paesi terzi sono state un baluardo a quanto pare insuperabile per tutti. Di fatto le liste presenti sulla scheda degli italiani espatriati sono infatti solo quelle esentate dalla raccolta firme [1].

La rappresentanza degli italiani all’estero è di 8 seggi su 400 alla Camera e di 4 seggi su 200 al Senato, numeri che nei delicati equilibri di maggioranza parlamentare spesso nel recente passato hanno fatto la differenza. In tutto questo l’esclusione delle liste di opposizione, seppur motivata a norma di legge, lascia diversi punti interrogativi. Anche volendo soprassedere sui bizantinismi delle norme stesse (regole ed eccezioni concepite per esentare dall’incomodo tutti partiti di governo, incluse microformazioni appena nate come “Impegno civico” di Luigi Di Maio) l’anomalia più grande e difficile da motivare è il rifiuto di ammettere le firme digitali. Le firme certificate in remoto sono già ammesse per la presentazione dei referendum d’iniziativa popolare a seguito di un provvedimento approvato lo scorso anno dal Parlamento. Per rendere valide le firme digitali ed evitare le polemiche sarebbe bastato che il governo Draghi si fosse preoccupato di emanare un semplice decreto volto ad equiparare la raccolta firme per le elezioni politiche a quella per i referendum, ma non è accaduto nonostante le proteste e le richieste ufficiali [2]. Una decisione che andrebbe spiegata.

[di Luca Paltrinieri]