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L’ENI ricalcola il contributo sugli extraprofitti e il titolo crolla in borsa

Il colosso energetico ENI è stato costretto a ricalcolare il contributo straordinario sugli extraprofitti. Come comunicato [1] dalla società, in seguito alle precisazioni giunte dall’Agenzia delle entrate, la somma da versare è stata ricalcolata, triplicando e passando quindi da 550 milioni a 1,4 miliardi. Il risultato è stato il crollo del titolo in borsa ben oltre il 4%, limitando i danni solo in chiusura. Da quanto è emerso, l’aumento è dovuto al fatto che nel computo andavano ricomprese anche una serie di attività svolte all’estero dalla compagnia.

Quella sui cosiddetti extraprofitti, è una tassa del 25% imposta dal governo Draghi sulle maggiori entrate delle aziende energetiche con il decreto-legge 50/2022 (decreto aiuti): l’extraprofitto viene calcolato sulla base dell’incremento del saldo tra operazioni attive e passive (quantificate sulla base delle comunicazioni trasmesse ai fini IVA) realizzato dal 1° ottobre 2021 al 30 aprile 2022, rispetto al medesimo periodo tra il 2020 e il 2021. Per ricalcolare quanto dovuto è stato necessario l’intervento dell’Agenzia delle Entrate, in quanto – secondo alcune fonti – a Palazzo Chigi e al MEF, il governo avrebbe scritto una delle norme tributarie più incomprensibili e incostituzionali della storia della Repubblica. Così, molte imprese del settore energetico colpite dalla tassa hanno protestato sostenendo che «la norma è stata scritta male, è uno strumento grezzo che non colpisce affatto gli utili, ma le dichiarazioni Iva ed è incostituzionale».

Per questo, almeno una ventina di imprese del settore ha fatto ricorso al TAR del Lazio, sperando in un rinvio alla Corte costituzionale. In ogni caso, se da un lato alcune imprese hanno deciso di non pagare la tassa, altre hanno pagato, in tutto o in parte, l’acconto di giugno, sebbene facendo calcoli errati, a causa della poca chiarezza della norma, come dimostra il caso di ENI. Proprio al limite della scadenza fissata per il 31 agosto, dunque, il cane a sei zampe ha provveduto a integrare i 220 milioni inizialmente versati con altri 340 milioni.

Attraverso le tasse sugli extraprofitti imposte alle aziende energetiche, il governo conta di raccogliere 11 miliardi di euro da destinare alle misure di sostegno per mitigare il caro bollette per consumatori e imprese. Tuttavia, con la prima rata della tassa, prevista entro il 30 giugno scorso, dei 4,2 miliardi attesi ne è arrivato solo uno, proprio a causa della difficile interpretazione della norma a cui si sono appellate le aziende. Di conseguenza, le circostanze hanno indotto il governo a concedere ai colossi in questione una proroga di 60 giorni per integrare quanto dovuto, stabilendo sanzioni ridotte per chi avrebbe regolarizzato la posizione fiscale entro il 31 agosto e una multa del 60% su quanto non versato – raddoppiata rispetto alle sanzioni ordinarie già previste – dal primo settembre in avanti.

Nello specifico, ENI contesta il fatto che gran parte dei risultati positivi registrati dall’azienda nel periodo ottobre 2020 – aprile 2021 sono stati fatti vendendo all’estero petrolio e gas come produttore. Quindi in un’intervista [2] al Sole 24 Ore, il direttore finanziario di ENI, Francesco Gattei, ha spiegato che la compagnia «ha pagato l’acconto del 40% il 30 giugno in linea con il dettato della legge e a valle della circolare del 23 giugno dell’Agenzia delle entrate che prevedeva come esclusione, rispetto al saldo IVA, le operazioni attive extra-territoriali. L’11 luglio, però, con una nuova circolare, l’Agenzia ha precisato che l’esclusione poteva essere effettuata solo in presenza di una perfetta corrispondenza con operazioni passive fuori campo IVA».

Secondo alcune indiscrezioni trapelate negli ultimi giorni, proprio a causa di queste difficoltà, il governo pensa a una riscrittura della norma che preveda la tassazione di una base imponibile che sia effettivamente lo specchio di una maggiore capacità contributiva. Inoltre, tra le misure allo studio c’è anche quella di considerare i versamenti finora eseguiti come un acconto per l’imposta riformulata. Questo spiega la decisione dell’ENI di versare comunque la tassa e non intraprendere un contenzioso con l’Agenzia delle entrate.

Secondo l’analisi di alcuni esperti, inoltre, il governo avrebbe sovrastimato le entrate provenienti dalla tassa: a giugno, Segio Giralsi – esperto di energia – scriveva [3] che «secondo alcune stime, la tassa frutterebbe al massimo 3 miliardi, cioè 8 miliardi in meno di quanto atteso dal governo». Come riferisce [4] il quotidiano La Repubblica, invece, se tutte le aziende pagassero quanto dovuto, «il gettito totale per lo Stato potrebbe alzarsi, con le sanzioni, ben oltre i 10,5 miliardi totali. Aggiungendo la prima sanzione del 15% sui 3,2 miliardi che mancano, arriverebbero 480 milioni in più. Ma se invece le aziende si convincessero di spuntarla alla Consulta, quel gettito rischia di trasformarsi in un buco e in un lungo contenzioso».

In sintesi, l’incapacità del governo di formulare una chiara norma tributaria ha fornito un valido pretesto alle aziende energetiche per non pagare quanto dovuto sugli extraprofitti, allungando quindi la procedura di riscossione dei proventi, proprio mentre il Paese deve affrontare una crisi energetica senza precedenti e l’esecutivo è alla perenne ricerca di fondi da destinare alle misure di sostegno per famiglie e imprese. Misure che il più delle volte si rivelano temporanee e assolutamente insufficienti.

[di Giorgia Audiello]