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All’ONU falliscono ancora una volta i negoziati per la protezione degli Oceani

È andata in fumo la possibilità di siglare il nuovo Trattato ONU sugli oceani, e questa volta non se ne parlerà di nuovo presumibilmente per diversi anni. Un accordo essenziale per proteggere almeno il 30% di un bene di fondamentale importanza [1] e realizzare una rete di aree marine protette e Santuari, è stato mancato dopo due settimane di trattative a causa delle troppe divergenze tra i 168 paesi membri. Impossibile, a quanto pare, trovare un compromesso per l’istituzione di aree marine protette, il miglioramento qualitativo e quantitativo delle valutazioni di impatto ambientale, il rafforzamento delle capacità ai Paesi in via di sviluppo per dare anche il via a dei finanziamenti e la condivisione delle risorse genetiche marine (si parla di materiale biologico utile in diversi settori delle società contemporanee). Nonostante i vari negoziati vadano avanti da ben 15 anni, l’accordo ONU realmente finalizzato e applicato rimane la Convenzione delle Nazione Unite sul diritto del mare (UNCLOS), che risale al 1982; e mentre le manovre si arrestano, la crisi oceanica continua. E ad essere davvero protetta [2] da aree marine [3] riconosciute, ad oggi è solo l’1,2% della superficie oceanica.

Eppure gli esperti e le ricerche parlavano chiaro da tempo: è necessario prendere provvedimenti immediati per proteggere il 30% degli oceani del mondo entro il 2030. Il cosiddetto obiettivo 30×30 è il minimo indispensabile per far sì che gli oceani recuperino ed evitare un pericoloso collasso della biodiversità marina. Nonostante quella descritta sia solo una partenza tanto esile quanto di estrema importanza, non si riesce a metterla in atto.

I recenti colloqui sul Trattato ONU, sono terminati lo scorso 27 agosto e non hanno portato a nulla di concreto a causa di divergenze nate perlopiù da parte dei paesi della High Ambition Coalition con aggiunta del Canada e degli Stati Uniti (eppure Biden ha recentemente promesso [4] tutt’altro). La stessa Hingh Ambition Coalition (di cui fanno parte circa 61 paesi, tra cui l’Italia) che era stata creata in pompa magna proprio perché era “tempo di agire”, come si legge [5] sul sito ufficiale.

Le difficoltà nate appaiono però più volute che casuali; come denuncia Greenpeace International che non si arrivasse a un accordo era prevedibile. Da parte dei membri della High Ambition Coalition non c’è stata la reale applicazione pratica delle teorie abbracciate durante l’osannata conferenza COP26 e «A meno che i ministri non convochino una riunione di emergenza nel 2022 per concludere i negoziati, la High Ambition Coalition e altri come gli Stati Uniti non hanno mantenuto l’impegno di arrivare a un Trattato quest’anno». Nello specifico ci si accorge che tra i punti più difficili da abbracciare durante le discussioni ci sia stato il tema dell’Artico.

La situazione al Polo Nord è tra le più preoccupanti, con un riscaldamento di almeno tre volte superiore al resto del mondo ma il fatto che lo scioglimento dei ghiacciai – devastante per l’ambiente – apra attraenti vie commerciali prima inesistenti, dia modo di sfruttare nuove risorse dei fondali, pare fare talmente gola da rendere sconveniente siglare ora un accordo che tutelerebbe tali aree, rendendole protette quindi inaccessibili per scopi commerciali o per il deep sea mining (cioè lo sfruttamento delle risorse minerarie tra i 2.000 e i 5.000 metri di profondità).

E quello fallito, ben il quinto meeting, sarebbe andato a buon fine se a decidere fossero stati alcuni Paesi come le isole del Pacifico e il Caribbean group, assolutamente volenterosi di adottare realmente un United Nations UN Ocean Treaty. Ancora una volta un accordo risolutivo per la protezione dell’ambiente è saltato anche, e forse soprattutto, a causa della mancata volontà da parte dei Paesi economicamente più avanzati.

[di Francesca Naima]