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Esperanto, la lingua che sognava di prevenire l’omologazione globale

Combattere contro non è sempre l’unica opzione per cambiare la storia. Alle volte anzi è bene creare quando tutto sembra crollare, piuttosto che contribuire all’annientamento. Da quando la globalizzazione neoliberista ha caratterizzato il mondo si è allungata l’ombra culturale di un’omologazione indisturbata, causa di possibili spersonalizzazioni e che avrebbe potuto cancellare intere culture, privando i popoli delle proprie identità. Una prospettiva che taluni combattono opponendo un desiderio di chiusura a protezione dei confini fisici ed identitari. Tuttavia il contrario alla omologazione delle culture non è la chiusura identitaria, ma la creazione di ponti tra i popoli nel rispetto delle differenze. Questa almeno è l’ideale alla base di uno dei tentativi più arditi nella storia, quello della lingua Esperanto.

Se cooperazione e scambio precludessero una reciproca crescita, senza che né da una parte né dall’altra esista volontà di sopraffare, cosa accadrebbe? Le stesse domande di chi ha immaginato di utilizzare le frontiere della modernità in maniera diversa, provando a convertire ciò che minacciava in un qualcosa che potesse portare la pace e la conoscenza. Anziché fagocitare, iniziare a cooperare attraverso la scoperta e la valorizzazione dell’altro, partendo da un bisogno primordiale dell’essere umano che permette di unirsi: la comunicazione.

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Non di un popolo ma di tutti: Esperanto, la lingua dell’umanità

L’esperanto è la lingua artificiale più conosciuta a livello internazionale ed è stata sviluppata tra il 1872 e il 1887 da Ludwik Lejzer Zamenhof, medico e linguista polacco. Quando fu pubblicato il primo trattato sulla lingua da lui inventata (Una libro, ovvero primo libro) Zamenhof non firmò utilizzando il suo vero nome. Era il 1887 e il breve trattato volto a introdurre al mondo la nuova lingua dalle grandi ambizioni era stato scritto da un tale Doktor Esperanto. Letteralmente, dottore speranzoso. Uno pseudonimo che rappresentava la volontà di Zamenhof di accorciare le distanze e permettere a chiunque di riconoscersi nelle differenze, comunicando. Il linguista polacco aveva capito l’importanza dell’essere vicini e sperava di dare il suo contributo per ritrovare uno spirito di connessione umana. E quale miglior modo se non quello di permettere a tutti di scambiare pensieri e informazioni, senza alcun gap linguistico?

Facile da apprendere, l’Esperanto deriva principalmente dalle lingue neolatine, benché alcuni vocaboli abbiano origine da altre famiglie linguistiche, ed è caratterizzato da semplicità fonetica, grammaticale e lessicale, proprio per facilitarne l’apprendimento e di conseguenza la diffusione. Perché Zamenhof voleva fare dell’esperanto una vera e propria lingua franca, utilizzata per la comunicazione tra persone con lingue madri diverse. Chiunque avrebbe dunque iniziato a comprendersi grazie all’esperanto, un insieme di segni a tutti noto e che avrebbe dovuto essere necessariamente scorrevole. Non a caso rispetto a molti altri idiomi l’esperanto può essere appreso con tempistiche sorprendentemente rapide, perché Zamenhof aveva messo a punto una grammatica sì, figlia di diverse lingue, ma assolutamente non complessa, senza eccezioni ma che non mancasse di espressività. Le forme regolari dell’esperanto permettono l’apprendimento assoluto dell’idioma a qualsiasi età e la logica che esso segue lo fa essere privo di ambiguità.

Tutto quel che c’è da sapere sulla lingua artificiale nata dall’idea del medico polacco è descritto in Fundamento de Esperanto, libro diviso in quattro sezioni pubblicato sempre da Zanmenhof nello stesso anno del primo Congresso Universale di Esperanto (1905). In Fundamento de Esperanto sono elencate le sedici regole fondamentali della lingua artificiale, che palesano la facilità d’apprendimento dell’esperanto:

Ĉiu vorto estas legata, kiel ĝi estas skribita.
Ogni parola è letta come è scritta.

Sebbene abbia avuto grande diffusione specialmente agli inizi del Novecento e per un po’ di tempo abbia goduto di un certo interesse da parte delle istituzioni, tanto da essere stata vicina al riconoscimento ufficiale da parte dell’Unione Europea, la creazione del linguista polacco non è davvero riuscita ad affermarsi come lingua franca, definizione in cui invece ad oggi – per quanto continuino ad esserci dibattiti – si identifica l’inglese.

L’apparente paradosso di una lingua globale amata dai no-global

Da quel che è stato espresso finora, è chiaro come l’esperanto non si fermi ad essere un mero insieme di segni utili per scambiare informazioni. La vera speranza di Zamenhof era quella di rendere l’esperanto una lingua atta alla comprensione reciproca, caratterizzata da neutralità e da apprendere come un’utile seconda lingua, mai volta a sopprimere o sostituire le altre esistenti come erroneamente è stato creduto. Anzi, l’idea di Zamenhof era anche modo per evitare il verificarsi di altri soprusi, come quelli delle nazioni che hanno imposto la propria lingua e di conseguenza anche la propria cultura cancellando davvero il passato e il presente di intere popolazioni. L’Esperanto invece non avrebbe preso il posto di altri sistemi linguistici, piuttosto avrebbe difeso alcune lingue minori che rischiavano di scomparire.

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Proprio col fine di rispettarne la filosofia di base e favorirne la diffusione come strumento realmente utile senza cadere in schieramenti, padroni e imposizioni, la neutralità e l’indipendenza sono sempre state prerogative fondamentali dell’esperanto. Tanto che lo stesso movimento esperantista non si è mai convertito in una setta o in un gruppo elitario, e gli esperantisti sono visti come coloro che si approcciano all’apprendimento della lingua internazionale. Un’idea che non si è voluta rinchiudere in un’ideologia, aprendosi al servizio di tutti per il bene comune, come viene specificato nei testi cardine dell’esperantismo, la Dichiarazione di Boulogne (anche conosciuta come Dichiarazione sull’essenza dell’esperantismo) e il Manifesto di Praga, redatto e pubblicato nel 1996 in cui viene anche attaccato l’atteggiamento della politica internazionale, che troppo spesso ha calpestato i diritti linguistici.

Dalle due opere si apprende chiaramente che l’esperanto è proprietà del mondo intero, evita qualsiasi strumentalizzazione e vuole l’indipendenza totale da qualsivoglia corrente, religione, schieramento politico. Eppure in un modo l’esperanto ha poi fatto parte di una sorta di coalizione, specialmente quando è stato abbracciato da alcuni gruppi appartenenti al movimento no-global proprio per gli ideali e le caratteristiche che lo contraddistinguono. Un’apparente contraddizione: come può una lingua globale essere amata da chi si contrappone alla globalizzazione?

L’arcano è facilmente risolvibile. La globalizzazione neoliberista, a guida occidentale, è ciò che omologa le culture e annienta le identità. L’Esperanto invece aspira alla loro difesa. Nell’idea dei movimenti esperantisti la lingua mondiale avrebbe dovuto sostituire al limite le lingue nazionali, viste come costrutti anch’esse il più delle volte costruite a tavolino per permettere di parlare tra loro ai cittadini di una nazione. La storia dell’italiano, dopotutto, è questa: una costruzione politico-letteraria a partire dal Toscano. Ciò che gli esperantisti intendevano salvaguardare sono invece le lingue locali, quelle che realmente costruiscono le identità dei popoli, ovvero i dialetti, che le lingue nazionali hanno invece semi-distrutto. Quando invece si parla di movimento esperantista, si intende un movimento transculturale e internazionale cui fondamentale obiettivo è la diffusione e la promozione dell’esperanto, ancora presente e che dal 1970 ha preso le sembianze di una vera e propria comunità rappresentata dall’UEA, l’Associazione Universale Esperanto. Lo scopo è sempre stato e rimane comunque uno: il raggiungimento di una democrazia linguistica.

Da progetto a utopia: la storia dell’esperantismo

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Il termine da cui l’esperanto ha origine sembrerebbe avere definito anche le sorti dell’idioma. Speranza che non è mai scemata, ma che non ha nemmeno visto del tutto applicato ciò che era stato immaginato. Quando Ludwik Lejzr Zamenhof pubblicò i suoi primi scritti nel 1887, l’esperanto destò subito curiosità e interesse, diffondendosi abbastanza rapidamente. La comunità esperantista è sembrata crescere negli anni nonostante non abbia avuto chissà quale grande appoggio dagli ambienti politici, che anzi in certi momenti hanno messo i bastoni tra le ruote alla diffusione della lingua come internazionale, credendola una minaccia, dati anche i valori etici di cui si è fatta portatrice.

Oggi si propone ancora l’esperanto come lingua franca per l’Unione Europea, ma quest’ultima si rifiuta di rendere la lingua artificiale mezzo comunicativo principale, perché vuole mantenere in auge le 24 lingue ufficiali dei 27 Stati Membri. Alcuni criticano però la scelta dell’UE e vedono la “giustificazione” da essa utilizzata come infondata, visto poi come la maggior parte delle questioni vengano discusse usando principalmente sempre e solo l’inglese. Le critiche si infoltiscono pensando poi alla portata dell’esperanto: dal primo Congresso universale del 1905, che ebbe luogo in Francia, fu dimostrata per la prima volta la potenzialità della nuova lingua. Cittadini di venti Paesi differenti si unirono parlando esclusivamente in esperanto e fu proprio alla fine del congresso che nacque la Dichiarazione di Boulogne.

Dal primo Congresso se ne ripeté uno ogni anno, e intanto l’esperanto si faceva sempre più spazio nel mondo, tanto da arrivare ad essere proposto come lingua ufficiale nello stato del Moresnet e come lingua di lavoro dalla SDN (Società delle Nazioni), in quel che viene riconosciuto come il periodo di massimo successo del movimento esperantista che coincide con gli anni Venti del Novecento. Il sogno di Zamenhof fu messo a dura prova dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale e specialmente durante la Seconda Guerra Mondiale. Tra l’altro Zamenhof era ebreo, tra i motivi per cui l’esperanto fu associato alle comunità ebraiche, tanto che gli esperantisti subirono pesanti persecuzioni. La lingua creata da Zamenhof ha successivamente avuto un momento di rinascita, senza espandersi tanto rapidamente ma consolidandosi come la lingua di chi si oppone al sistema capitalistico, di chi fa parte di un’avanguardia sociale e cerca un’unione pacifica dove invece c’è guerra, la lingua in cui chi fa parte di svariate associazioni e correnti di pensiero può identificarsi. E non sorprende come durante la Conferenza Generale del 1954, l’UNESCO abbia esaltato l’esperanto, riconoscendolo come fondamentale per la diffusione culturale e per favorire l’unione tra i popoli.

L’esperanto, ancora vivo “grazie” a internet?

Sicuro che l’esperanto sia una lingua viva, perché scritta, parlata e della quale ancora si discute, rimane difficile fare stime su quanto effettivamente sia diffusa. Ad oggi circa 2 milioni di persone sarebbero in grado di utilizzarla, un numero in crescita anche “grazie” all’avvento di internet (l’esperanto segue tra l’altro una logica utile per l’informatica nel ramo della linguistica computazionale) e ha avuto un nuovo picco durante la pandemia. Come fosse stato riscoperto, sono sempre più frequentati i blog sulla lingua, che se ancora non riconosciuta dagli organi competenti è invece valorizzata dal mondo della rete, traducibile con Google Translate, disponibile in diverse app per l’apprendimento linguistico come Duolingo. Attraverso internet la comunità esperantista sembra sopravvivere e prosperare, con piattaforme e iniziative volte a connettere gli attuali sostenitori e parlanti, molte delle quali sono gestite da TEJO, associazione mondiale che riunisce i giovani esperantisti sempre più attiva negli ultimi anni. E furono sempre gruppi di ragazzi che ad esempio nel 2001, nel vivo del G8, trovarono nell’esperanto strumenti che assecondassero le loro esigenze e una filosofia che abbracciasse la loro.

E se il giornalista Joshua Foer nel 2012 aveva dato per spacciato l’esperanto nel suo articolo per The New Yorker, sembra che la lingua creata per unire trovi continuamente nuovi appassionati, cause da sostenere, movimenti sociali a cui dar voce o nuovi medieum su cui approdare, continuando a «combattere con le armi della pace».

[di Francesca Naima]