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Recensioni indipendenti: Rising Phoenix (documentario)

Un’ora e quarantacinque minuti di emozioni e un permanente nodo alla gola in questo documentario del 2020 diretto da Ian Bonhôte e Peter Ettedguiche, che racconta l’incredibile rinascita alla vita, attraverso lo sport, di nove atleti olimpici con disabilità motorie. Esempi emblematici della realizzazione del sogno di medici illuminati che in un recente passato hanno intuito come far nascere la speranza e l’attaccamento alla vita in chi si sente “diverso”, ma hanno soprattutto insegnato come non arrendersi mai alla deprimente sensazione di inferiorità.

Sono tante le storie che vengono raccontate in Rising Phoenix, momenti difficili ed eventi tragici presentati  senza alcuna forma di pietismo ma in maniera totalmente naturale, a tratti, perfino ironica. A partire dalla nostra connazionale Bebe Vio, medaglia d’oro per la scherma alle Paralimpiadi di Rio 2016, a Jean Baptiste Alaize, atleta francese del salto in lungo, mutilato all’età di 3 anni durante la guerra civile in Burundi, da Matt Stutzman, nato senza braccia e diventato campione di tiro con l’arco, a Jonathan Peacock, con una gamba amputata è riuscito a correre assieme al suo idolo Oscar Pistorius, riuscendo addirittura a batterlo. Da Ellie Cole nuotatrice australiana e giocatrice di basket in carrozzina a Ntando Mahlangu sudafricano specializzato nelle gare di velocità e nel salto in lungo, da Ryley Batt giocatore australiano di rugby in carrozzina, a Tatyana McFadden atleta fondista e biathlon statunitense, per finire con Sir Philip Craven (ex campione mondiale di basket), e Presidente del Comitato Paralimpico Internazionale dal 2001 al 2017.

Nove storie per far capire che, con grande forza di volontà, un po’ di follia e tanta determinazione, si  può evitare di cadere in un baratro senza fine e come la fenice, uccello mitologico cui si attribuiva la peculiarità di morire bruciato e risorgere dalle proprie ceneri, “Rising Phoenix” appunto, simboleggi un ritorno alla vita in un modo più unico che raro grazie allo sport. Lungi dall’essere ormai solo una mera pratica riabilitativa per il corpo e per lo spirito di persone che pensavano di dover passare la loro vita in una inevitabile immobilità, la pratica dello sport, qualsiasi tipo di sport, ha trovato una convalida nel riconoscimento ufficiale delle Paralimpiadi consentendo, a buon motivo, di poter stare su un ipotetico podio a pari merito delle Olimpiadi. Così ogni 4 anni, subito dopo di queste, si tengono gare di ogni disciplina sportiva con atleti “diversamente abili” che usufruiscono dei medesimi spazi e delle stesse strutture.

La prima edizione delle Paralimpiadi viene considerata dal Comitato Paralimpico Internazionale quella che si svolse a Roma nel 1960 fortemente voluta dal Dottor Antonio Maglio un pioniere delle terapie di riabilitazione per i disabili, che si basavano in particolare sulle idee del neurologo anglo-tedesco Ludwig Guttmann, che per primo introdusse lo sport come primaria attività per le persone in carrozzina. Da allora migliaia di persone paraplegiche, grazie alle Paralimpiadi, possono praticare sport anche solo come terapia ma con la possibilità di vedere e capire fin dove si può arrivare  in condizioni solo apparentemente impossibili e soprattutto far comprendere a chi si considera “normale” quanta normalità e vitalità ci può essere in ognuno di noi e permettere a chi è spettatore, di stupirsi e di avere la possibilità di apprezzare un evento di grande umanità e potenza. Il documentario è disponibile sulla piattaforma Netflix.

[di Federico Mels Colloredo]