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La scrittura del cielo

Il tempo è il vero padrone. Gli antichi osservavano la volta del cielo non per sognare spazi lontani e illimitati ma per scrutare la scrittura celeste che permetteva loro di conoscere lo svolgersi futuro, le inclinazioni del destino, la forza di mari e venti, il precipitare di fulmini, i corretti orientamenti per fondare una città, per assegnare un nome a chi era nato, per erigere un tempio, per prepararsi alle disavventure della storia, prossima e futura.

Il cielo era la volta del tempo più che dello spazio, il contenitore delle potenzialità, l’origine dei fenomeni, la fonte delle persistenze e dei cambiamenti.

L ‘affermazione che il destino è scritto nelle stelle ha a che fare non soltanto con il precorrimento indicato da ogni combinazione astrale o con le congiunzioni planetarie che orientano astrologicamente.

Potrebbe anche essere così ma forse è la velocità della luce a spiegarci che noi non vediamo mai le stelle nelle condizioni in cui si trovano: è la loro lontananza a tradursi in forma temporale. E quindi anche le stelle non vedono mai il nostro presente ma un tempo remoto, nell’avvenire o nel passato. In questo modo sembra che ci precedano e che ci determinino perché si trovano in un tempo differente da quello che noi stiamo vivendo. L’ordine delle costellazioni ha un riflesso cronologico, forma una scrittura da interpretare.

Contemplare la volta notturna, soprattutto con i cieli limpidi estivi, significa dunque immergersi non tanto nella vastità illimitata del cosmo ma guardare il tempo: pensiamoci, una sensazione unica, metafisica, paradossale.

Ma un tempo senza durata, infinitesimale e insieme incommensurabile in cui inscriviamo la nostra traccia, di esperienza, di memoria, di desiderio. Quel cielo che stiamo guardando in realtà non esiste più, siamo noi a pensarlo così.

Un tempo non lineare, progressivo ma ciclico, ricorrente, segnato da scansioni scritte nel cielo (Santillana e von Dechend, Il Mulino di Amleto, Adelphi).

Soltanto però l’abbandono di ogni intenzione, di qualsiasi aspettativa rende eterno, divino, estraneo alla nostra volontà ciò che ora osserviamo. Guardiamo dunque il tempo, allora, non lo spazio, ma il tempo che si trova su più assi paralleli e moltiplica la nostra realtà.

Non sentiamoci dunque oppressi da quello che accade, chi ci vuole determinare non l’abbia vinta.

Sarà invece la nostra rabbia o il nostro stupore o la nostra preghiera a salvarci: tenteremo così di impadronirci, per quanto si può, del nostro tempo. Di leggere noi le nostre stelle.

[di Gian Paolo Caprettini]