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L’industria dei chip taiwanese e le controversie tra Cina e USA

La presenza della politica statunitense Nancy Pelosi sull’isola di Taiwan sta scatenando un putiferio diplomatico che alcuni già identificano come la quarta crisi dello stretto di Formosa. La Cina legge la visita diplomatica come un affronto alla propria autorità, cosa che a sua volta sta esacerbando i già complessi rapporti tra Taipei e Beijing. In questo scenario così complesso l’industria dei microchip si fascia la testa per attutire i timori di una possibile invasione, i quali stanno incidendo non poco sul valore delle azioni connesse al settore tecnologico asiatico. Taiwan conta la produzione di circa il 26% della domanda di semiconduttori mondiali, percentuale che supera il 90% [1] nel settore dei microchip di ultima generazione, il 65% dei chip utilizzati negli Stati Uniti hanno origine sull’isola. Sottolineare che queste fonderie rappresentino un obiettivo sensibile è lapalissiano e il mondo intero è ben consapevole che queste industrie figurerebbero tra i primi bersagli da controllare – o distruggere – nel caso di un’eventuale avanzata cinese.

Risulta improbabile l’esplosione effettiva di una guerra, perlomeno nell’immediato, ma il Mercato ha comunque reagito negativamente all’aumentare delle tensioni. I Composite Index di Taiwan, Shanghai e Hong Kong hanno perso punti, un destino condiviso con molte aziende cinesi. In questo fosco panorama finanziario, il CEO della Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (TSMC), Mark Liu, ha sentito la necessità di intervenire ai microfoni della CNN [2]per esprimere un utilitaristico messaggio di distensione bellica.

«L’interruzione del nostro operato creerebbe molti disagi da ambo le parti», ha dichiarato Liu facendo riferimento al fatto che le fonderie di Taiwan coprono anche il 10% della domanda tech cinese. «Improvvisamente le loro componenti più avanzate scomparirebbero dal mercato. […] Nessuno nel mondo degli affari vuole veder scoppiare una guerra». La posizione del dirigente è condivisa e attuale, tuttavia non è detto che la situazione rappresenti una costante destinata a reggere anche nel futuro.

La pandemia ha contribuito a palesare quanto Europa e Nord America siano dipendenti dalle aziende cinesi, uno shock che ha spinto i Paesi occidentali ad attrezzarsi per costruire entro i propri confini nuove fonderie di semiconduttori. In tal senso, gli Stati Uniti stanno perfezionando i loro progetti facendo affidamento proprio sulla consulenza di TSMC, la quale sta prestando il suo know-how partecipando attivamente ai programmi di Washington.

C’è altresì da chiedersi quale sarà il destino di Taipei una volta che USA e UE potranno sopravvivere senza i suoi microchip. La situazione è dunque ulteriormente complicata dal claudicante clima politico che deve affrontare in questo periodo l’Amministrazione Xi Jinping. Le radicali politiche di lotta al Covid adottate dalla Cina hanno danneggiato l’economia del gigante asiatico, ma l’attuale Presidente deve assicurarsi che il Paese appaia forte e stabile, soprattutto tenendo conto che c’è in ballo un terzo mandato presidenziale.

[di Walter Ferri]