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Il filo rosso che lega neoliberismo, guerre e pandemie: intervista a Vittorio Agnoletto 

Genova, luglio 2001. Centinaia di migliaia di persone invadono la città per protestare contro il summit del G8 e un ordine economico mondiale guidato dall’ideologia neoliberista e dalle multinazionali. Il portavoce del movimento no-global italiano, raccolto nel Genoa Social Forum, era Vittorio Agnoletto. Medico e attivista, oggi insegna Globalizzazione e Politiche della Salute all’Università degli Studi di Milano, è coordinatore della campagna Diritto alla cura – nessun profitto sulla pandemia per la sospensione dei brevetti sui vaccini per il Covid e conduce una trasmissione sui temi del diritto alla salute intitolata 37e2 su Radio Popolare. Se c’è una persona in Italia con la quale parlare di critica della globalizzazione e degli intrecci tra ordine economico mondiale, guerra e pandemia, insomma, questa è proprio Vittorio Agnoletto, e noi lo abbiamo raggiunto telefonicamente per questo.

Secondo molti osservatori la guerra in Ucraina ha accelerato una crisi della globalizzazione già inaugurata dalla pandemia: cosa ne pensa?

La pandemia e la guerra sono il prodotto della globalizzazione neoliberista. La prima è frutto anche del sistema di sviluppo, fondato sulla deforestazione massiva e sugli allevamenti intensivi che favoriscono l’abbattimento delle barriere tra le specie e quindi le zoonosi. Anche la stessa impossibilità di contenere la diffusione del virus è dovuta al sistema liberista, in particolare agli accordi sui brevetti, guarda caso stabiliti proprio all’interno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). Il movimento altermondialista nacque a Seattle, nel 1999, proprio protestando contro questa istituzione. Viviamo in un modello di sviluppo in cui un’azienda come Pfizer durante la pandemia ha raddoppiato i propri ricavi, rivendendo a peso d’oro vaccini e cure sviluppati grazie a finanziamenti pubblici senza che le fosse imposto alcun obbligo o limite. Anche la guerra si inserisce in questo quadro, non essendo altro che la lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche e per il controllo delle basi della logistica per trasferirle. Fino a quando manterremo in piedi un modello fondato sullo sfruttamento del pianeta e sul consumo sfrenato, la guerra continuerà ad essere il modo in cui le potenze combatteranno per la proprietà delle risorse.

Una realtà che sta producendo anche una catastrofe alimentare in molti Paesi del Sud del mondo, contro la quale i Paesi ricchi non si stanno certo dando molto da fare. Anche questa dinamica si può inquadrare nelle storture della globalizzazione neoliberista, non crede?

Naturalmente. La guerra ha fatto esplodere una situazione già drammatica ed anche questa è legata fortemente alle logiche di dominio della globalizzazione. Un esempio molto semplice: l’Unione Europea, attraverso i fondi dell’agricoltura, finanzia in massima parte le multinazionali dell’agrobusiness, che utilizzano questi soldi per invadere i mercati africani con i loro prodotti, rendendoli più economici rispetto a quelli prodotti in loco. Di conseguenza la popolazione abbandona le terre, le quali vengono rilevate dalle multinazionali e trasformate in enormi monocolture. Un Paese produce solo riso, un altro solo cacao, un altro solo zucchero e le multinazionali trasportano questi prodotti dove è loro utile. Così si è distrutta in buona parte l’agricoltura locale di sussistenza e quegli stessi popoli sono ora costretti ad acquistare sul mercato globale ciò che prima producevano. Questo già stava avvenendo, le dinamiche innescate dalla guerra lo hanno solo reso visibile.

Queste dinamiche il movimento no global le denunciava già venti anni fa: si può dire che avevate capito prima meccanismi che oggi sono sotto gli occhi di tutti?

Preciso che noi non ci siamo mai definiti no global, ma altermondialisti, perché lottavamo contro questo modello di globalizzazione fondato sul profitto di pochi e che avrebbe rischiato di portare l’umanità al disastro; a 20 anni di distanza stiamo sperimentando che purtroppo avevamo ragione. Bastava analizzare criticamente il modello di sviluppo basato sul neoliberismo che si andava creando per capire che avrebbe portato a questo punto. Ricordo al Forum di Genova, nel luglio 2001, quando l’economista Susan George disse «attenzione, perché se l’economia finanziaria andrà avanti a dominare l’economia reale l’Europa andrà incontro a una crisi senza precedenti», ed è quella che ci ha travolto nel 2008 e non ci ha più lasciato.

Proprio la pandemia ha testimoniato i limiti della globalizzazione. La protezione ad oltranza dei brevetti sui medicinali e sui vaccini ha ribadito, a mio avviso, come nell’ideologia liberista i Paesi poveri non siano portatori di diritti, ma debbano solamente ringraziare per eventuali azioni caritatevoli. Cosa ne pensa?

Gli attori principali della globalizzazione non hanno certo a cuore la difesa e la sopravvivenza di tutta l’umanità, hanno a cuore i loro profitti. Sanno perfettamente che questo modello alimenta tensioni e provoca conflitti. Mentre in Italia e in Europa siamo alla quarta vaccinazione, nei Paesi poveri appena il 16% delle persone ha ricevuto la prima dose, secondo quanto dichiarato dall’OMS. A Houston un centro di ricerca ha sviluppato un vaccino e ha deciso di rinunciare al brevetto per renderlo disponibile a basso prezzo in tutto il mondo (il Corbevax, ndr.), ma le agenzie del farmaco europea e nordamericana hanno rifiutato di prenderlo in considerazione perché non rispetta gli standard di produzione da loro stabiliti e realizzabili solo da aziende situate nell’emisfero nord-occidentale. Non una sola azienda europea o americana ha accettato di fare da partner a questo progetto e di produrre questi vaccini. Il mercato è controllato totalmente: tutto il mondo occidentale deve essere dominato dai vaccini mRNA prodotti dagli Stati Uniti in asse con la Germania, dove ha sede BioNTech, partner di Pfizer. Nessuna azienda rischia di mettersi contro questi enormi interessi. Siamo arrivati all’assurdo che nei contratti per i vaccini stabiliti tra multinazionali del farmaco e Stati è scritto addirittura che i governi devono attendere l’ok dell’azienda produttrice prima di poter donare ai Paesi poveri le dosi che hanno in giacenza, avendoli acquistati in sovrannumero.

Nella narrazione occidentale a questo punto intervengono i cosiddetti filantropi, che grazie alla loro carità aiutano i Paesi poveri…

Ecco, parliamo della fondazione di Bill Gates. A gennaio 2020 era pronto un progetto dell’OMS per costruire una piattaforma aperta all’interno della quale tutti i ricercatori avrebbero potuto inserire le proprie scoperte e confrontarsi per arrivare prima possibile a sviluppare un vaccino efficace. È arrivata la fondazione Gates e in buona sostanza ha detto: «Io ho qua un assegno, però questo progetto si chiude. Facciamo il progetto COVAX (il progetto finanziato dalla fondazione Gates per distribuire vaccini ai Paesi poveri, ndr.), ma nessuno deve mettere in discussione i brevetti». Questo genere di filantropia è una parte del potere liberista che serve a proteggere gli interessi delle multinazionali e allo stesso tempo a migliorarne l’immagine.

I vaccini sono stati approvati all’interno di questo sistema che abbiamo descritto, che prevede il dominio delle multinazionali, i contratti secretati tra aziende produttrici e stati e scarsissima trasparenza sui dati clinici, come lamentato anche da molti ricercatori. Eppure chiunque abbia messo in luce questo quadro è stato etichettato come “no vax” ed escluso dal dibattito pubblico. La domanda quindi è: hanno chiesto ai cittadini di “fidarsi della scienza” come ripetuto continuamente, oppure in verità hanno imposto loro di fidarsi delle multinazionali del farmaco?

Io non posso essere certo considerato no vax, visto che coordino una campagna europea per fare arrivare i vaccini in tutto il mondo, ma quando ho posto delle domande mi hanno estromesso dal sistema mediatico mainstream. È evidente che c’è stato un accordo tra Big Pharma e Commissione Europea, e senza ombra di dubbio il governo italiano è uno dei più subalterni agli interessi delle industrie farmaceutiche. C’è indubbiamente un problema di trasparenza, anche nella comunicazione, che talvolta ha provocato dei disastri. Ad esempio, è stato chiaro molto presto come a fine 2020 non vi fossero dati circa la reale efficacia dei vaccini nel bloccare le infezioni, ma solo sulla loro capacità di bloccare la malattia e i suoi decorsi sfavorevoli. I vaccini rimangono importantissimi per ridurre i decessi, ma quando si sono verificati i primi casi d’infezione in persone vaccinate la precedente comunicazione scorretta ha dato adito a chi riteneva che i vaccini non servissero.

Tuttavia anche di fronte a dati che evidenziano la larga incapacità dei vaccini di prevenire l’infezione si è resa semi obbligatoria, tramite il green pass, anche la vaccinazione dei più giovani che, dati alla mano, poco o niente rischiano contraendo il Covid. Chiaro che questo abbia alimentato, almeno in alcuni, lo scetticismo verso la scientificità di alcune decisioni…

Affermare che i vaccini non arrivino a produrre l’immunità di gregge non significa sostenere che non forniscano alcun aiuto a ridurre la circolazione del virus. Inoltre, quando si fa un atto medico bisogna sempre valutare il rapporto rischi-benefici. Nello spingere sulla vaccinazione della fascia 5-12 anni non si disponeva di dati forti, o almeno nessun ricercatore indipendente li ha visti. Scegliere di vaccinare in maniera generalizzata i bambini senza prima realizzare un vero confronto sui dati scientifici non è stato corretto e su questo andrebbe interrogata anche la Società Italiana di Pediatria, che ha emesso le linee guida ed ha rapporti quantomeno ambigui con le aziende farmaceutiche. Chiunque abbia posto domande scientifiche è stato fatto tacere. Quando, a novembre 2021, il professor Crisanti disse in tv che in quel momento non vi erano elementi sufficienti per la vaccinazione dei bambini gli venne risposto che certe cose le avrebbe dovute dire nei convegni scientifici e non in televisione. La comunicazione mainstream ha fatto da megafono al potere politico.

Anche il modo in cui gli enti regolatori dei farmaci occidentali hanno scelto di valutare solo i vaccini prodotti in Occidente è un sintomo delle storture della globalizzazione neoliberista, non trova?

Assolutamente, il caso dei vaccini per i bambini è ancora una volta emblematico. Le regole dell’EMA (l’Agenzia del farmaco europea, ndr.) specificano che le richieste di autorizzazione per i vaccini e i farmaci rivolti ai bambini debbano essere accompagnate da dati su trial clinici specifici su questa fascia di età, non basta mettere in commercio lo stesso vaccino diminuendo la dose sulla base di dati emersi da trial estremamente limitati. Esiste solo un vaccino anti-Covid al mondo sviluppato appositamente fin dall’inizio per i bambini: quello cubano. Cuba ha sviluppato un vaccino pediatrico, non a mRNA ma basato su una metodica sviluppata da decenni, che nei trial e nella distribuzione già effettuata sui bambini cubani non ha mostrato gravi effetti collaterali. Tuttavia le autorità occidentali non lo hanno nemmeno preso in considerazione. La ragione è chiaramente dettata dalla volontà di proteggere i profitti di Big Pharma nonché dalla storica volontà politica degli Stati Uniti contro Cuba.

La risposta alla pandemia è stata incentrata totalmente sulle vaccinazioni di massa, trascurando ogni possibilità fornita dalle cure, a cominciare da quelle domiciliari, anche in presenza di dati che si erano mostrati da subito promettenti. La logica del voler proteggere gli interessi delle aziende farmaceutiche ha colpito anche qui a suo avviso?

Sulle cure ci sono due tipi di problemi. Ora abbiamo farmaci prodotti dalle stesse aziende produttrici dei vaccini, che sono stati prontamente approvati,
ma hanno prezzi pazzeschi e sono anche difficili da maneggiare, con il risultato è che abbiamo interi lotti di questi farmaci in scadenza. Qui la responsabilità in Italia è del governo e delle Regioni, che non fanno funzionare il servizio sanitario in modo adeguato. L’altra questione, precedente, è stata la scelta italiana di autorizzare solo il protocollo noto come “paracetamolo e vigile attesa”. Come responsabile scientifico dell’Osservatorio Coronavirus, sono stato sommerso di telefonate di colleghi medici che mi dicevano: “Io riesco a seguire a casa alcune persone infettate evitando che finiscano in ospedale, però devo contravvenire le linee guida ministeriali che dicono che non devo fare nulla”. Credo sia difficile trovare un medico di medicina generale che possa, in scienza e coscienza, affermare di non essere mai andato oltre le linee guida. C’è da chiedersi perché le linee guida ministeriali siano state fatte in quel modo e con quale obiettivo. Non tutti potevano essere curati a casa, questo è certo, ma altrettanto fuori di dubbio è che ci sono state tante ospedalizzazioni che potevano essere evitate.

Oltretutto i medici che osavano parlare di cure domiciliari in pubblico sono stati denigrati e fatti passare per no vax…

Credo perché le cure domiciliari presuppongono un servizio sanitario che funziona a partire dai servizi territoriali. In alcune regioni, Lombardia in testa, dove il servizio sanitario è stato scientemente distrutto e migliaia di persone non hanno nemmeno un medico curante, la medicina territoriale è ridotta ai minimi termini, abbandonata a sé stessa. In questo quadro è chiaramente più semplice agire con una logica commissariale e puntare su una medicina centrata sugli ospedali, visto che la ricostruzione della medicina territoriale abbisogna di tempo e di competenze ed oltretutto è malvista dal business della sanità privata.

Tornando al discorso generale sulla globalizzazione, oggi tanti cittadini riescono a percepire chiaramente alcune delle sue conseguenze nocive che i movimenti denunciavano già 20 anni fa. Lo scetticismo verso l’ordine delle cose credo sia ai massimi livelli, eppure i grandi movimenti contro la globalizzazione sono scomparsi. Anche nella sinistra radicale, di cui lei storicamente fa parte, non si sente protestare più di tanto contro  organizzazioni contro il World Economic Forum o la Banca Mondiale, e la critica alle istituzioni sovranazionali è oggi portata avanti da gruppi della destra nazionalista. Per quale ragione?

Oggi c’è un’enorme differenza tra la diffusione di quelle che erano le nostre idee e la loro rappresentanza politica, visto che in Italia la sinistra antiliberista è ridotta ai minimi termini, sia per proprie colpe sia per la repressione che ha subito. E non parlo solo di quanto avvenuto a Genova, ma anche della forsennata e prolungata campagna mediatica finalizzata a screditare il movimento e le sue ragioni. In tutta Europa la repressione e l’emarginazione sono state spietate. La storia però è stata completamente diversa in America Latina, dove l’esperienza dei movimenti contro la globalizzazione si è incontrata con la disponibilità di settori importanti della sinistra politica a rimettersi in discussione e, in particolare nel primo decennio di questo millennio, hanno contribuito a modificare i governi e l’assetto del potere. In Europa siamo ancora nel campo della battaglia delle idee, il compito è spiegare che la lotta contro le multinazionali del farmaco non può essere separata da quella contro l’agrobusiness che affama l’Africa o da quella contro la grande finanza. Non esistono soluzioni semplici a compartimenti stagni come quelle proposte dai nazionalisti, c’è un intero sistema economico e di potere da cambiare ed occorre farlo in tempi brevi perché in gioco c’è l’intera umanità.

Parliamo di dinamiche enormi, rispetto alle quali molti pensano di essere impotenti. Un cittadino può fare qualcosa concretamente nella sua quotidianità per opporsi a questo sistema?

Può fare molto, ricordiamoci che ogni cittadino è un lavoratore, quando un lavoro ce l’ha, è un consumatore e, quando può, è anche un risparmiatore. In queste tre vesti può molto, sostenendo alcune campagne precise, cercando di fare acquisti in modo critico. Può scegliere di non mettere i propri risparmi in grandi banche che sostengono le multinazionali o il commercio di armi. In generale può utilizzare molte scelte che compie nella propria vita quotidiana
come strumento di lotta e poi magari aggregarsi con gli altri per portare avanti delle campagne.

Il movimento no global già nel 2001 aveva nel mirino anche i media mainstream. Fu celebre lo slogan “non odiare i media, diventa il media” con il quale si sottolineò la necessità di creare nuovi mezzi di controinformazione capaci di andare a rompere il monopolio della narrazione dominante. In quell’epoca nacquero anche esperimenti interessantissimi, come Indymedia e il concetto stesso di giornalismo partecipativo. A 20 anni abbondanti di distanza come vede il panorama dell’informazione e della controinformazione in Italia?

Sono estremamente preoccupato perché mi pare che stiamo andando non solo a livello nazionale, ma a livello globale, verso una concentrazione sempre più
smaccata dei media in poche mani. La comunicazione è sempre più asservita al potere politico ed economico. Tuttavia anche la controinformazione attraverso canali, siti, social e radio alternative ha acquisito forza ed è in grado di superare i confini. Certo, mi auguro che le cose cambino anche nel mainstream e che ci sia anche una ribellione da parte di alcuni giornalisti, ma i risultati si possono ottenere anche al di fuori di esso. Vedo anche molti giovani che si danno da fare, con modalità magari diverse da quelle della mia generazione e che io fatico a comprendere, ma che sono efficaci. Non hanno ancora vinto, la partita non è chiusa.

[di Andrea Legni]