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Il paradosso della sostenibilità in un mondo globalizzato

Prima l’Italia, poi la Germania, ed ora i Paesi Bassi: sono sempre di più le economie avanzate che hanno scelto di ricorrere al carbone, la fonte energetica più impattante, per far fronte all’attuale crisi energetica. Una scelta forse inevitabile ma che evidenzia una contraddizione che difficilmente sarebbe potuta passare inosservata. “Siamo o no nell’era della transizione ecologica?”, verrebbe ai più spontaneo chiedersi. D’altronde, allo scopo di evitare le conseguenze più disastrose di un cambiamento climatico già oggi fin troppo evidente, gli scienziati di tutto il mondo, da quasi un decennio, ribadiscono l’urgenza di abbandonare immediatamente ogni fonte fossile. Appelli, ormai annuali, rimasti a lungo inascoltati, poi presi in considerazione, ora, nuovamente subordinati all’emergenza del momento. Difficile comprendere le motivazioni dietro tale negligenza politica, le alternative di certo non mancano. Tuttavia, non è detto siano immediatamente percorribili. Quel che è certo è che i nuovi squilibri geopolitici hanno messo in evidenza le fragilità di un sistema energetico globalizzato, basato sulle fonti fossili e l’interdipendenza. La consapevolezza di tali debolezze strutturali sta emergendo solo ora, così come solo negli ultimi tempi si stanno realizzando le falle del neoliberismo in fatto di sostenibilità. Gli impatti ambientali a lungo termine della globalizzazione, a differenza di quelli sociali ed economici, non sono stati infatti adeguatamente analizzati, così ora ci ritroviamo a fronteggiare degli effetti collaterali, seppur prevedibili, in gran parte inaspettati. Nel complesso non si brancola però del tutto nel buio. Qualche somma è possibile tirarla.

Diversa ricchezza, diverso impatto ambientale

Uno dei primi studi condotti allo scopo di comprendere le conseguenze ambientali dell’apertura dei mercati e della crescita economica indefinita è stato quello realizzato, nel 2009, da tre ricercatori dell’università del North Dakota e di Seul. Gli scienziati, nella ricerca [1] pubblicata su Ecological Economics, hanno valutato l’ultimo mezzo secolo di emissioni di anidride solforosa (SO2) in 50 paesi diversi a economia avanzata, emergente o in via di sviluppo. L’andamento storico delle emissioni in ogni Paese è stato correlato con l’aumento della ricchezza, in termini di Prodotto interno lordo (PIL), e del grado di apertura dei mercati, valutato sulla base della crescita del commercio internazionale. Quel che è emerso è che l’inquinamento atmosferico ha avuto una tendenza differente a seconda del grado di sviluppo economico della nazione considerata. In sintesi, le emissioni inquinanti sono aumentate, in relazione al PIL e alla graduale apertura dei mercati, in tutti i paesi a economia emergente o in via di sviluppo. Di contro, i fattori presi in esame sono apparsi legati ad una migliore qualità ambientale nei paesi più ricchi. Ma non nell’immediato. Inizialmente, l’aumento della ricchezza si è tradotto in un maggiore inquinamento, successivamente, con l’evoluzione del sistema economico, la ricchezza è continuata a salire, ma l’inquinamento è diminuito. Al riguardo, la spiegazione più plausibile è fondamentalmente una: nelle economie più deboli l’apertura dei mercati ha determinato un deterioramento ecologico poiché le industrie più inquinanti, attratte da norme ambientali più blande, vi si sono trasferite.

Ad oggi, sebbene ancora non ci sia un consenso unanime su quale sia la migliore misura della globalizzazione e del suo impatto sull’ambiente, la scienza concorda che il modello economico neoliberale determina impatti ambientali iniqui. Il fenomeno, inoltre – secondo uno studio [2] più recente – si verifica anche perché le economie, nelle prime fasi di sviluppo, pianificano di generare opportunità commerciali e occupazionali piuttosto che sostenere la tutela ambientale. La consapevolezza ecologica sembra aumentare, anche in questo caso, con l’aumentare della ricchezza. Tuttavia, prima di arrivare a questo punto è necessario raggiungere un picco prima del quale ogni paese inquina in modo proporzionale alla crescita economica. E nel complesso, senza guardare le singole casistiche, globalizzazione e sostenibilità appaiono spesso l’una l’antitesi dell’altra. Una maggiore ricchezza sarà indubbiamente associata ad un maggiore sforzo a favore dell’ambiente, ma, se parliamo di sostenibilità a lungo termine, è lo stesso concetto di crescita economica senza freni – di cui la globalizzazione è figlia – a fare acqua da tutte le parti.

Il caso emblematico del trasporto a distanza

Merci prodotte dove conviene di più poi trasportate da un capo all’altro del mondo: in un mondo globalizzato, non stupiscono più gli immensi viaggi che i beni di consumo, primari o secondari che siano, fanno ogni giorno. Eppure, in tutto questo, c’è un qualcosa di profondamente contorto. L’apertura dei mercati sotto l’onda del neoliberismo ha dato vita ad un sistema apparentemente virtuoso, a detta di molti, essenziale per lo sviluppo socioeconomico del Pianeta, che tuttavia nasconde più di una criticità. Prendiamo il caso del cibo. Considerando l’intera catena di approvvigionamento, trasportare gli alimenti secondo le attuali regole commerciali emette 3 Giga Tonnellate di anidride carbonica equivalenti (GtCO2e) l’anno. Ovvero, il 6% delle emissioni globali di gas ad effetto serra: dalle 3,5 alle 7,5 volte in più di quanto stimato in precedenza. Ad affermarlo è stata una nuova ricerca [3] dell’Università di Sidney finalizzata proprio a quantificare l’impronta ecologica del cibo che arriva sulle nostre tavole. Nella pubblicazione avvenuta di recente su Nature Food, i ricercatori hanno inoltre scoperto che ci sono alcuni alimenti più impattanti di altri. In particolare, i più climalteranti sono quelli che richiedono l’impiego di refrigeratori per il trasporto a lunga distanza. Stesso discorso per la frutta fuori stagione. La carne, invece – in base ai risultati emersi – ha un’impronta ecologica particolarmente elevata in fase di produzione, 7 volte maggiore di quella di frutta e verdura, ma le emissioni generate dal suo trasporto sarebbero ridotte. E questo è solo un esempio.

Solo via mare, ogni anno, vengono trasportate 11 miliardi di tonnellate di merci, circa una tonnellata e mezza a persona se si considera l’attuale popolazione mondiale. Nel 2019, il valore del commercio marittimo mondiale – il quale rappresenta fino al 90% di quello totale – ha superato i 14.000 miliardi di dollari. Questo è responsabile, nella sola Europa, del 3,7% delle emissioni totali di CO2, nonché del 13% delle emissioni del settore dei trasporti. Eppure, beneficia ancora di circa 24 miliardi di euro all’anno in sussidi fiscali sui combustibili fossili, oltre che di diverse tipologie di esenzioni. Senza contare che è l’unico settore per il quale un efficace tassazione sul carbonio è ancora un miraggio. L’ultimo spiraglio in questo senso è stato sonoramente frenato [4] dal Parlamento europeo insieme all’intera riforma degli Emission Trading Scheme (ETS). Insomma, non è tanto la crisi energetica: la politica, in ogni caso, trova veramente difficile stare dalla parte della sostenibilità.

E qui torniamo al paradosso

La globalizzazione porta ad una maggiore ricchezza, la quale a sua volta favorisce un maggiore rispetto dell’ambiente naturale e lo sviluppo sostenibile in generale. Questo è l’assioma, ma qualcosa continua a non tornare. In primo luogo, non è detto che la globalizzazione sia l’unica via per percorrere la strada del benessere economico. In secondo luogo, anche fosse così, la ricchezza che ne deriva non è in nessun caso distribuita equamente, anzi, le diseguaglianze spesso si acuiscono. Un mondo globalizzato è, in realtà, un mondo polarizzato: da un lato, il Nord del mondo, ricco e consumista, dall’altro, il Sud, povero e malnutrito. Secondo i risultati emersi da uno studio [5] pubblicato su The Lancet, i Paesi ad alto reddito sono stati responsabili del 74% dello sfruttamento globale di risorse in eccesso, guidato principalmente dagli Stati Uniti (27%) e dalle nazioni ad alto reddito dell’Ue (25%). La Cina ha contribuito per il 15%, mentre il Sud del Mondo (o meglio, i paesi a basso e medio reddito di America meridionale e centrale, Africa, Medio Oriente e Asia) ne è stato responsabile per appena l’8%. Considerando poi i soli Paesi a reddito medio-basso e basso, nel complesso, questi hanno persino consumato meno dell’1% delle 2,5 mila miliardi di tonnellate di risorse utilizzate dalle società umane tra il 1970 e il 2017.

Come si spiega un divario di tali proporzioni? La risposta, seppur non semplice, è in una globalizzazione, intimamente legata al concetto di crescita economica indefinita, i cui stili di vita modello sono incompatibili con i naturali tempi di rinnovo delle risorse terrestri. Un’ambizione utopica che ha preso forma quando i termini ‘sostenibilità’ ed ‘ecologia’ erano solo sulla bocca di un ristretto gruppo di scienziati. Un concetto, che ha a lungo ignorato l’esauribilità delle disponibilità della Terra, cardine di un sistema economico che ora forse è sempre più in bilico. Se veramente si sgretolasse del tutto, quali conseguenze ambientali dovremmo quindi aspettarci? In una visione ottimistica, da un commercio più localizzato, ad esempio, potrebbe derivare un consistente taglio nella quantità di emissioni climalteranti. Da un sistema energetico in cui ogni paese ha maggiore autonomia – non autarchia, si badi bene – si potrebbe ricavare più spazio per le fonti rinnovabili. Dalla fine delle delocalizzazioni, potrebbe derivare una riduzione dell’impatto ambientale a carico dei paesi più poveri. Dalla presa di coscienza che la Terra ha una capacità finita di risorse, potrebbero derivare modelli economici realmente sostenibili. Da società in via di sviluppo che ambiscono a modelli diversi dal ‘sogno americano’, potrebbe derivare una richiesta inferiore di materie prime. In definitiva, dalla ‘rottura’ della globalizzazione – non è quindi poi così azzardato affermarlo – l’ambiente avrebbe solo che da guadagnarci. A patto però che si trovi un nuovo e più consapevole equilibrio. Infatti – è bene precisarlo – non tutte le sfumature della globalizzazione sono deleterie in termini ecologici: basti pensare, alla cooperazione internazionale in materia di obiettivi climatici o alla possibilità di reperire materiali essenziali alla stessa transizione energetica.

[di Simone Valeri]