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Le scomposte reazioni delle élite internazionali alla caduta di Draghi

Le dimissioni dell’ormai ex Presidente del Consiglio, Mario Draghi, hanno suscitato un vero e proprio allarme politico, scatenando il panico non solo in Italia, ma anche a livello internazionale: insieme alle pressanti richieste da parte dei sindaci, delle parti sociali e di alcuni esponenti politici del Belpaese affinché il Premier proseguisse il suo mandato, si sono levate preoccupazioni per la dipartita dell’ex BCE anche da oltreoceano. In particolare dagli ambienti finanziari americani e dal Dipartimento di Stato USA, il quale ha perso uno dei garanti più fedeli e incrollabili dell’atlantismo. «La leadership italiana sotto la guida del premier Mario Draghi è stata essenziale nel mettere impegni ambiziosi sul clima alla COP26, nel forgiare una risposta senza precedenti dell’UE e della NATO alla guerra della Russia in Ucraina e nel promuovere gli interessi comuni di Stati Uniti e Italia nella regione del Mediterraneo» si legge in una nota [1] di un portavoce del dipartimento di Stato americano. Secondo il politologo e fondatore di Eurasia Group, Ian Bremmer, invece, le elezioni anticipate sarebbero dannose per il Paese, in quanto il voto «minerebbe i progressi sulle riforme e metterebbe a repentaglio l’accesso al finanziamento UE del Recovery Fund».

Simili preoccupazioni provengono anche dalle più importanti banche americane e dalle agenzie di rating: la Goldman Sachs – di cui Draghi è stato vicepresidente dal 2002 al 2005 – dopo aver pronosticato (e auspicato) lo scorso maggio una prosecuzione del governo Draghi anche nel 2023, ora esterna tutta la sua apprensione. Ha, infatti, affermato [2] che «senza Draghi alla guida dell’Italia ci sono molte potenziali preoccupazioni», mentre l’agenzia di rating Fitch fa sapere [3] che le dimissioni di Draghi «annunciano una maggiore incertezza politica anche se venissero evitate le elezioni anticipate». È chiaro, dunque, che gli ambienti economici transnazionali sono in allarme per la tenuta dei “mercati” e per il possibile rallentamento delle famigerate riforme strutturali che si traducono in iniziative di privatizzazione, liberalizzazione ed austerità economica e che spesso vanno incontro proprio agli interessi dei suoi propugnatori.

Queste dichiarazioni confermano peraltro la vicinanza dell’“uomo del Britannia” agli ambienti tecno-finanziari internazionali, di cui non di rado ha fatto gli interessi a scapito di quelli nazionali: basti pensare alle privatizzazioni selvagge dei primi anni Novanta di cui hanno beneficiato proprio le banche americane e portate avanti dall’uomo che oggi è considerato il più autorevole e rappresentativo politico occidentale quando era Direttore generale del Tesoro. Per questo, l’ex Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, lo definì in diretta tv [4] «un vile affarista […] il liquidatore dell’industria pubblica italiana». Oggi, sebbene in chiave e modalità diverse, iniziative politiche come il disegno di legge sulla concorrenza portano avanti i medesimi obiettivi, promuovendo la privatizzazione e la liberalizzazione economica che danneggia le piccole e medie imprese e i lavoratori, come dimostrato dalle tenaci proteste dei tassisti contro la liberalizzazione del settore.

Allo stesso tempo, si rileva anche come la caduta di Draghi possa sfaldare il già debole fronte europeo rispetto alla questione del sostegno all’Ucraina in funzione antirussa: Draghi, infatti, è stato uno dei più ferventi difensori della causa di Kiev, fermamente ostile a Mosca. Perso il suo carisma politico e il suo ascendente sugli altri leader europei, sebbene l’Italia rimanga saldamente e irreversibilmente inserita nell’orbita atlantica, verrà a mancare il punto di riferimento che serviva da collante per le principali capitali europee, già divise sull’atteggiamento da tenere verso Mosca, in particolare per quanto attiene la questione energetica: proprio per quest’ultimo motivo, infatti, le adesioni di Francia e Germania al fronte antirusso appaiono meno solide.

La plutocrazia transazionale atlantista ha dunque perso il suo “uomo di fiducia”, il suo “mandante” all’interno del governo di Roma, tanto che Charles Kupchan, direttore per l’Europa nella Casa Bianca di Obama con Biden vicepresidente, in un’intervista [5] al quotidiano la Repubblica ha affermato che: «Sullo sfondo dell’invasione russa dell’Ucraina, l’ultima cosa di cui la comunità atlantica ha bisogno in questo momento è un tracollo politico in Italia. […] Draghi ha tenuto una mano ferma sul volante e contribuito a garantire la solidarietà europea e transatlantica nel respingere la Russia e sostenere l’Ucraina».

Così, da più parti si solleva l’ipotesi che non solo la Russia trarrà beneficio dalle crisi ricorrenti dei governi europei, ma anche che Mosca abbia avuto un ruolo attivo nella caduta del governo di Roma, sospetto agitato dall’ex ministro degli esteri Luigi di Maio e naturalmente subito smentito dal Cremlino. Similmente, lo stesso Kupchan ha affermato che «Putin spera che l’Occidente crolli, grazie agli elettori stanchi dell’inflazione e dei problemi nel settore energetico».

Intanto, da Mosca trapelano alcune letture [6] sulla crisi politica italiana: l’emittente russa RenTv vede le dimissioni di Draghi come «una fuga da una nave che affonda», in quanto le sanzioni «stanno ormai colpendo il portafoglio di ogni italiano» con proteste che sono all’ordine del giorno. L’emittente definisce poi l’Italia come «il centro della crisi politica in Europa». L’agenzia russa TASS, invece, ritiene che «l’uscita di scena di uno dei più affidabili alleati USA in Europa indebolisce l’asse anti-russo».

Dalle reazioni dell’establishment internazionale rispetto alla caduta del governo italiano emerge un elemento comune: ossia come Roma risulti il perno determinante di importanti equilibri geopolitici. Se, infatti, l’alleato più vicino a Washington si indebolisce, ciò non potrà non avere ripercussioni sull’intera Europa – che comunque non può reggere ancora a lungo il peso delle sanzioni imposte al Cremlino – determinando una frammentazione della regione e, dunque, una destabilizzazione dell’intera strategia atlantica, rendendo così il blocco occidentale sempre più vulnerabile.

[di Giorgia Audiello]