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La psiche virtuale

Se la realtà vera non esiste, o quanto meno è soltanto un’ipotesi, allora anche la non realtà, la sua negazione, la realtà virtuale, perché dovrebbe esistere? Reale e irrazionale finirebbero per coincidere, il nuovo Hegel del metaverso si metterebbe a fantasticare di sesti sensi, illusionismi tecnologici, fantasie senz’anima, artifici manieristici.

Chi andrà dunque dallo psicanalista? Il paziente che vive a disagio le 24 ore canoniche di ogni giornata oppure il soggetto che non sapendo usare le trappole della realtà virtuale, si sente diminuito e castrato? Il mondo di riferimento perde i suoi tratti costitutivi, le sue misure, i suoi contorni. Vediamo offuscato, oltre vetri diafani, sporchi e fumosi, tutto è il contrario di tutto, le prove inconfutabili cessano di esistere, nessuno può essere inchiodato alle sue responsabilità.
«Signor giudice, non l’ho uccisa io, io ero nel metaverso, sentivo sibili e sussurri, glielo assicuro, poi qualcuno ha armato la mia mano ma l’arma non era finta, ha sparato davvero un proiettile, non un quantum algoritmico». La perizia ha determinato che il presunto colpevole viveva in uno stato allucinatorio ma che non aveva assunto specifici farmaci o sostanze.
Credeva di essere la reincarnazione di Frankenstein, aveva imparato a memoria il romanzo di Mary Shelley e si era appassionato di Edgar Allan Poe, tanto che aveva inventato videogiochi interattivi a partire dalle sue opere.

Al perito aveva raccontato che era andato con Jules Verne al centro della Terra, sfruttando le sacre voragini care al mondo antico romano, e che poi era volato sui crateri astrali con il cinema di Méliès, e che poi aveva vissuto qualche mese con un altro film-maker, Murnau, in quella cittadina tedesca sul mare del Nord, che aveva visto davvero quei pelosi animali giganti girare per New York e quegli altri esseri superumani che con tute colorate volavano nelle metropoli per portare giustizia e vendetta. Aveva anche confessato che, prima di uccidere, rileggeva le storie di Lovecraft e di Phil Dick ma che preferiva quest’ultimo per le sue idee politiche progressiste.

L’imputato amava molto anche la poesia inglese e francese dell’Ottocento, di Keats e Baudelaire, attratto com’era dagli stupefacenti e dagli oppiacei, così si chiamavano allora. Insomma, signori della giuria voi vi preoccupate se qualcuno mi ha visto girare per le vie della città con strane maschere e antenne sul capo. Ma non vi dovete preoccupare troppo. La cosa aveva già attratto Il sosia di Dostoevskij quando aveva pensato di incontrare se stesso sul ponte di San Pietroburgo.
In fondo questo metaverso non è altro che una fantasia, cioè etimologicamente un prodotto della psiche e dei suoi incantesimi, che soltanto l’intelligenza può dire che esistano davvero. Ma una intelligenza oscura, inquieta, contraddittoria, quella di una mente che ha davvero ancora bisogno di una bella classica, cura analitica. Alla ricerca della psiche perduta, cioè dell’anima andata sì in frantumi ma pronta a riprendersi una nuova vita visiva nel caleidoscopio, quel magico vecchio dispositivo che trasforma pezzi di disordine in meravigliose inedite composizioni piene di luce.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]