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Il labile confine tra misure di emergenza e abuso di potere

Il 31 marzo il governo italiano ha dichiarato ufficialmente la fine dello stato d’emergenza legato alla pandemia da coronavirus. Sono passati più di due anni dalla sua prima introduzione – a cui hanno fatto seguito una seria di rinnovi – da parte dell’allora Presidente del consiglio Giuseppe Conte. I tempi sono abbastanza maturi per provare a tirare le somme e raccogliere i cocci di un sistema che il più delle volte ha avuto delle gravi mancanze e che in altri casi ha sfruttato la scia e il clamore generato dalla pandemia per stringere le maglie del controllo sui cittadini e irreggimentare il dissenso. Una dinamica che non ha risparmiato l’Italia, che anzi è stata analizzata come un caso limite all’interno delle democrazie occidentali. A sottolinearlo vi è stata la stampa internazionale, ad esempio il Washington Post, che – in un articolo del 16 novembre 2021 – ha affermato che [1] l’Italia si è “spinta in un nuovo territorio per le democrazie occidentali” e che le norme emergenziali approvate avrebbero contribuito a stabilire “che livello di controllo la società sia disposta ad accettare”. E non hanno mancato di preoccuparsene anche organizzazioni in difesa della democrazia, come Amnesty International [2].

Non è tutta democrazia quella che luccica

La posizione espressa da Amnesty rispetto alle politiche pandemiche adottate da Roma è piuttosto netta: in particolare puntando il dito sullo stato di emergenza e la discriminazione riservata ai cittadini non vaccinati. In merito al primo provvedimento, secondo l’organizzazione, il governo italiano avrebbe prolungato l’emergenza ben oltre il necessario, quando avevano smesso di esserci quei “principi di necessità, temporaneità e proporzionalità” che devono caratterizzare una misura speciale.

Venendo poi al tema vaccini – resi obbligatori per gli over 50 in Italia – la posizione di Amnesty International è stata la seguente: se da un lato continua a ribadire la necessità che gli Stati promuovano una “distribuzione equa e globale dei vaccini” e “riconosce la legittima preoccupazione degli Stati di aumentare i tassi di vaccinazione come parte di un’efficace risposta di salute pubblica al Covid-19”, dall’altro “non sostiene i mandati di vaccinazione obbligatoria generalizzati ed esorta gli Stati a considerare qualsiasi requisito di vaccinazione obbligatoria solo come ultima risorsa e se questi sono strettamente in linea con gli standard internazionali sui diritti umani”. Significa che per Amnesty “gli Stati debbano concentrarsi sull’aumento dell’adesione volontaria al vaccino”, anche se l’obbligo di vaccinazione possa in determinate occasioni essere adottato. Ma “tutti gli Stati devono assicurarsi che qualsiasi proposta in tal senso sia mirata, limitata nel tempo e adottata solo come ultima risorsa” e “accompagnata da una logica basata sull’evidenza che spieghi perché l’obiettivo non possa essere raggiunto con misure meno restrittive”. In merito alla questione Amnesty ribadisce che, nel caso di obbligazione vaccinale, questa debba essere “stabilita dalla legge, ritenuta necessaria e proporzionata a uno scopo legittimo legato alla protezione della salute  pubblica”, e che in ogni caso ci debbano essere anche “garanzie e meccanismi di monitoraggio per assicurare che questi requisiti non si traducano in violazioni dei diritti umani”.

È successo? Non sempre. Amnesty a riguardo, ha espresso [3]la sua perplessità in merito al green pass rafforzato, ribadendo non solo che doveva trattarsi di “un dispositivo limitato nel tempo” ma soprattutto che il governo avrebbe dovuto continuare a garantire all’intera popolazione, inclusi i non vaccinati, il godimento dei propri diritti fondamentali: tra questi il diritto all’istruzione, al lavoro e alle cure, con particolare attenzione ai pazienti non-Covid, bisognosi di interventi urgenti e che invece sono stati penalizzati.

Il caso delle RSA e i diritti negati

Non è la prima volta che Amnesty International prende posizione in merito alla gestione della pandemia in Italia. Nelle settimane precedenti l’organizzazione aveva segnalato che, sfruttando il caos mediatico dato dall’accavallarsi di cifre, numeri inesatti, e regole governative confuse, alcuni datori di lavoro avevano messo a tacere ad esempio gli operatori sanitari e assistenziali che si erano detti preoccupati per le proprie condizioni di lavoro, in particolare nelle strutture per anziani.

Come? Con licenziamenti o procedimenti disciplinari, accompagnati da ritorsioni. Tutte misure improprie e che ledono la dignità e i diritti dei lavoratori. La stessa preoccupazione è stata espressa per le persone anziane ospiti delle strutture, a cui è stato negato un contatto effettivo con il mondo esterno anche dopo la fine delle restrizioni. Infatti, nonostante già a maggio le nuove normative prevedessero visite familiari nelle RSA per i possessori di un certificato Covid-19, molte residenze hanno continuato a negare gli incontri tra gli anziani e i propri parenti. Di fatto una vera e propria repressione e violazione del diritto alla salute e del diritto personale. Gli anziani hanno subìto isolamenti prolungati, che hanno aggravato di fatto la loro salute fisica e mentale.

Pandemia e “repressione opportunistica”

I governi di tutto il mondo, per tentare di contenere la diffusione del virus, hanno limitato quindi proprio i movimenti fisici delle persone: chiudendo le scuole ad esempio, o le attività commerciali e proibendo i grandi raduni o le manifestazioni. Direttive che hanno grandemente ampliato il numero di interventi statali nella vita privata dei civili, e che spesso si sono tradotte in repressione. Prima di approfondire questo aspetto, dobbiamo fare una distinzione. Potremmo suddividere la repressione in due macro categorie, a seconda di come questa agisce. Quella più nota è la repressione reattiva, che si verifica quando gli Stati reprimono alla luce del sole proteste o rivolte, in maniera diretta. La repressione opportunistica, invece, si verifica quando gli Stati strumentalizzano le crisi – in questo caso la pandemia – per reprimere il dissenso o l’opposizione politica.

Come la si riconosce? Il terreno su cui questo tipo di repressione si muove meglio è quello che prevede, come prima mossa, la sospensione dello Stato di diritto (quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo). Questa manovra, che conferisce ai governi che la adottano maggiore libertà di azione, dovrebbe essere adottata in casi di estrema necessità, con il solo e unico scopo di tutelare al meglio l’intera cittadinanza. Spesso questa scelta comporta l’aumento del numero di poliziotti per le strade, ad esempio, o l’impiego di nuove tecnologie di sorveglianza. Va da sé che questi strumenti, nelle mani sbagliate, finiscono per diventare un ottimo mezzo di repressione, legittimata però dallo stato di emergenza. Per questo motivo, prima di arrivare alla sospensione o la limitazione (seppur temporanea) delle libertà civili dei cittadini, è essenziale che coesistano per davvero una serie di criteri chiari e verificati: tra questi c’è il limite temporale garantito, l’applicabilità generale (che non penalizzi alcune categorie), che alla base ci siano norme legali (e che eventualmente possano subire delle modifiche), che le misure prese siano proporzionate alla situazione e che tutte le direttive rispettino prima di tutto la dignità umana. Tuttavia per molti Paesi la pandemia globale è stata una vera e propria manna dal cielo per attuare misure repressive spacciandole per
“protezione della salute pubblica”. Vediamone alcune.

[Il Presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sisi]

Nessuno spazio per la critica

Una delle forme più evidenti della repressione è la limitazione della libertà di espressione. Dall’inizio della pandemia sono state centinaia le misure adottate per mettere a tacere voci di dissenso o che semplicemente raccontavano la realtà dei fatti. I Paesi più repressivi in questo senso sono stati Bangladesh, Bielorussia, Cambogia, Cina, Egitto, El Salvador, Siria, Thailandia,Turchia, Uganda, Venezuela e Vietnam. Qui sono finiti in carcere diversi critici, operatori sanitari, giornalisti e membri dell’opposizione, con l’accusa di “generare il panico e dare falsa informazione”. In Egitto, nello specifico, il presidente Abdel-Fattah al-Sisi aveva introdotto alcune drastiche misure restrittive (in parte ancora in vigore). In più il leader, approfittando dello stato pandemico, ha ulteriormente prolungato lo stato di emergenza fino a data da destinarsi: una misura che, come sappiamo, comporta alcune specifiche limitazioni e che prevede sostanzialmente di affibbiare al presidente nuovi poteri (che normalmente non gli competerebbero).

A causa delle politiche di controllo adottate dal presidente, almeno nove medici sono stati arrestati e sanzionati per aver criticato il modo di agire del governo e diversi militanti islamisti e attivisti della società civile (congiuntamente ad alcuni reporter di testate giornalistiche internazionali) sono stati arrestati per aver diffuso “notizie false circa i numeri del contagio al fine di alimentare la dissidenza contro il regime”. Spesso in carcere gli è stata negata assistenza di base e i loro nomi sono stati inseriti nelle liste dei terroristi. Lo stesso sta accadendo in Kazakistan, dove continuano a verificarsi casi di persecuzione ai danni di attivisti o oppositori politici che sui propri social media hanno raccontato di violazioni dei diritti umani”. E ancora. Anche se l’Ungheria ha registrato un basso numero di contagi rispetto alla media mondiale, il primo ministro Viktor Orbán si è assicurato uno stato di emergenza a tempo indeterminato, che di fatto gli consente di governare per decreto.

Il bioterrorismo

In Venezuela, il presidente Nicolas Maduro ha utilizzato una tattica di repressione insolita: l’accusa di bioterrorismo, cioè quell’utilizzo intenzionale di agenti biologici (virus, batteri o tossine) in azioni contro l’incolumità pubblica. Durante la pandemia Maduro ha infatti accusato i connazionali di ritorno dall’estero di voler diffondere il virus all’interno della nazione sudamericana. Molti migranti venezuelani, infatti, con la pandemia hanno dovuto fare ritorno a casa (soprattutto dalla vicina Colombia, attraversando boschi e selve) per l’aumento della disoccupazione e l’impossibilità di mantenersi all’estero.

Rimpatriati sgraditi a Maduro, che li ha catalogati come “bioterroristi”, una grossa minaccia alla sicurezza nazionale. Il presidente ha infatti ordinato ai cittadini di denunciare questi individui alle autorità, inviando una e-mail con le informazioni della persona e la sua posizione esatta. Maduro ha inoltre accusato la vicina Colombia – sul cui confine si lotta ormai da anni – di aver ordinato ai migranti di ritorno di fare tutto il possibile per contaminare il Venezuela. Alcune associazioni hanno denunciato trattamenti disumani, sostenendo che Maduro abbia ordinato ai militari e alla polizia di applicare trattamenti crudeli e punizioni fisiche per i migranti di ritorno.

Uso pericoloso della tecnologia

Sin dalle prime fasi della pandemia, il governo indiano ha iniziato a utilizzare un’app di monitoraggio “per frenare la diffusione del COVID-19”. La preoccupazione che il primo ministro Narendra Modi abbia usato il tracciamento come strumento di sorveglianza di massa non è priva di fondamento. Il presidente ha infatti adottato, fin dalla sua elezione nel 2014, un’ampia repressione del dissenso, che colpisce particolarmente la magistratura e la libertà di stampa. L’utilizzo improprio di queste tecnologie comporta un attacco diretto alla privacy di ogni singolo cittadino e, in casi più gravi, ad un vero e proprio attacco etnico. Come il caso della Cina, che attraverso le nuove dotazioni tecnologiche ha esteso lo stato di sorveglianza nella regione dello Xinjiang: il riconoscimento facciale è stato utilizzato per identificare migliaia di uiguri e imporre loro la detenzione e l’indottrinamento forzato. Anche la Corea del Sud non ha perso l’occasione, tenendo traccia di tutti i positivi e trasmettendo le loro informazioni nel dettaglio a tutti coloro che dichiaravano di esserci stati a contatto. Un po’ come ha fatto il governo israeliano, che servendosi del coronavirus ha autorizzato la sua agenzia di sicurezza interna “Shin Bet” a utilizzare grandi quantità di dati, prelevati dalla localizzazione dei cellulari dei cittadini.

[Esempio di un’applicazione di rintracciamento Covid-19]

Abuso di potere

Secondo il report redatto [4] a ottobre del 2020 dall’organizzazione non governativa Freedom House, tra gli intervistati di tutto il mondo c’è un 27% che “ha segnalato l’abuso di potere del governo come uno dei tre problemi più importanti derivati dall’epidemia di coronavirus”. Sostenuti dalla giustificazione del “proteggere la salute nazionale”, funzionari e servizi di sicurezza hanno commesso violenze contro i civili, “detenuto persone senza giustificazione e hanno oltrepassato la loro autorità legale”. Tutti elementi al di là di quanto sarebbe stato necessario per proteggere la salute pubblica. Uno degli intervistati, proveniente dalla Turchia, ha detto che “il coronavirus è stato usato come scusa per il governo già oppressivo per fare cose che aveva programmato da tempo di fare, ma che non era stato in grado di fare”.

Secondo le ricerche portate avanti da Freedom House, ci sono prove della violenza della polizia contro i civili in almeno 59 Paesi. Dove si sono verificate? La maggior parte in contesti meno democratici: nello specifico per il 49% in Paesi parzialmente liberi e per il 41% in Paesi non liberi. Invece detenzioni e arresti arbitrati si sono verificati in almeno 66 Paesi, “tra cui il 49% dei Paesi parzialmente liberi e il 54% dei Paesi non liberi”. Il fatto che in paesi “parzialmente liberi” ci sia un alto tasso di violenza è giustificato dal fatto che spesso in queste zone esiste un’opposizione abbastanza attiva, a cui non fa fronte però un potere governativo abbastanza forte. Le autorità “non possono far altro” che ricorrere alla violenza sfruttando la pandemia per giustificare botte e manganellate, e accusando i dissidenti, per poter agire indisturbati, di violazione del coprifuoco o delle regole governative (come banalmente anche non indossare la mascherina).

Il caso emblematico della Cina

Ora: prendete tutte le condizioni sopra elencate, concentratele in un paese solo, e avrete la Cina. Il gigante asiatico sta infatti vivendo ora il lockdown più severo dopo l’ondata iniziale di gennaio 2020. Probabilmente la brutalità con cui si sta svolgendo questa chiusura forzata la rende unica nel suo genere. Online sono circolati alcuni video in cui si vedono cittadini positivi al virus essere portati con la forza in strutture comuni, una sorta di ghetto dove raccogliere gli “appestati”. Altre immagini mostrano le porte di casa sigillate dalle autorità da fuori, per impedire a chi ci sta dentro di uscire. E come non menzionare il filo spinato, posto a mo’ di recensione di interi quartieri. E ancora. Le autorità sanitarie hanno bloccato le finestre con degli adesivi per impedire ai residenti di aprirle e cantare o protestare. Quella cinese, e in particolare di Shanghai, è una vera e propria aggressione alla dignità e ai diritti fondamentali, non solo degli uomini, ma anche degli animali. Ha superato il varco della censura anche il video del cane ucciso di botte perché sospettato di essere contagioso.

Non è una novità che il regime di Pechino non sia propriamente un valido esempio di democrazia e libertà. Ma questa volta è diverso e c’è un elemento che ci fa capire che è così: l’urlo della gente, che sta protestando in tutti i modi possibili. Strillando dai balconi, dove possibile, per le strade, online. I cittadini hanno fame, le dispense sono vuote e i sistemi di delivery sono al collasso. Un bel problema visto che, ad esempio, l’acqua del rubinetto non è potabile. A Shanghai alcuni utenti hanno fatto circolare dei “tutorial” su come bollire l’acqua per renderla bevibile. Sembra tutto così assurdo, soprattutto perché tali restrizioni sono così estreme rispetto all’effettivo numero di contagi registrati. Basandoci sui dati degli inizi di maggio 2022, la Cina (che ricordiamolo, ha un miliardo e mezzo di abitanti) ha registrato 26.000 casi totali, di cui la maggior parte asintomatici. Difficile spiegare tanto accanimento senza sospettare si tratti principalmente di manovre politiche, più che sanitarie. Shanghai è infatti, rispetto ad esempio a Pechino, una città più incline alla contestazione. Una realtà scomoda per Xi Jinping, che è meglio tenere a bada soprattutto in vista delle prossime elezioni. Come? Sopprimendo voli, sbarrando le strade, obbligando di fatto chiunque ad una chiusura forzata: imprigionando, quindi, milioni di persone fra “le quattro mura” cinesi. D’altronde, come aveva detto quel tale intervistato da Freedom House, «il coronavirus è stato usato come scusa per il governo già oppressivo per fare cose che aveva programmato da tempo di fare, ma che non era stato in grado di fare».

In definitiva i dati raccolti in questi due anni dimostrano come sia stato un problema pressoché planetario e che non ha risparmiato nemmeno gli stati democratici l’uso delle politiche pandemiche come pretesto per restringere l’agibilità democratica e gli spazi di dissenso e comportamento difforme. Si tratta, di un tema che dovrebbe interrogare profondamente i parlamenti e i media occidentali: dove si colloca il confine tra legittimità delle misure di emergenza e abuso di potere? Senza esagerare, si può ritenere che in base al punto dove verrà collocato questo confine dipenderà parte del futuro della democrazia a partire dai suoi principi cardine che risiedono nella libertà di parola, di espressione e nel libero arbitrio.

[di Gloria Ferrari]