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La Commissione europea vara una nuova stretta sulla “disinformazione”

La Commissione europea ha recentemente pubblicato un nuovo codice di condotta contro la disinformazione [1], sottoscritto da 34 firmatari, tra cui – oltre alle big tech come Meta, Google, Twitter, TikTok e Microsoft – compaiono anche esponenti della società civile, i cosiddetti “factchekers” e le imprese operanti nel settore pubblicitario. L’iniziativa non è di certo nuova: fin dal 2018, la Commissione europea ha in cantiere un progetto per limitare quelle che vengono definite “fake news” e per combattere in particolar modo la disinformazione online. A tale scopo, aveva già convocato alcuni “esperti” per mettere a punto i principali cardini che avrebbero dovuto contenere il fenomeno in questione: tra gli italiani figuravano personalità quali Federico Fubini, Gina Nieri, Gianni Riotta e Oreste Pollicino. Tuttavia, il codice del 2018 era risultato del tutto insufficiente a realizzare gli obiettivi per cui era stato pensato, in quanto caratterizzato da vaghezza circa gli obblighi assunti  e dall’assenza di criteri per la verificabilità e misurabilità degli impegni presi. Quello del 2018 si ridusse dunque, di fatto, ad un codice di autoregolamentazione da parte delle principali piattaforme che ospitano l’informazione online.

La necessità di un cambio di paradigma e della riformulazione di un codice maggiormente strutturato e vincolante è diventata decisamente più impellente a partire dalla crisi pandemica, prima, e dagli scenari bellici in est Europa, dopo. Le istituzioni e i principali organi di stampa nazionali e internazionali, infatti, hanno cominciato – a partire da questi avvenimenti – a mal tollerare o non tollerare affatto chiunque sollevasse dubbi o differisse anche solo parzialmente da quella che era ritenuta la verità ufficiale dei fatti: il risultato è stato lo scatenarsi di una caccia alle fake news e al silenziamento di tutti coloro che divergevano, in quanto a opinioni e narrazione dei fatti, dalla “versione dominante”. In questo contesto va collocata la decisione di scrivere un nuovo codice di condotta contro la disinformazione anche a partire dalle linee guida della Commissione stabilite nel maggio 2021.

Rispetto a quello del 2018, il nuovo codice è caratterizzato, oltre che da un numero e una varietà più ampia di firmatari, anche dalla prossima entrata in vigore del Digital Service Act che farà delle regole di condotta strumenti di co-regolamentazione e non più solo di autoregolamentazione: il che significa che, in caso di inadempimento da parte dei firmatari degli impegni assunti, ci potranno essere delle sanzioni da parte delle istituzioni europee.

A partire da queste premesse, alcuni dei punti più rilevanti del nuovo codice riguardano innanzitutto l’innalzamento del livello di sicurezza – soprattutto negli spazi online ospitati dai giganti del web – contro tecniche, procedure e strategie di disinformazione. Di conseguenza, è prevista la demonetizzazione di tutti quei canali informativi, presenti sui social o su piattaforme come YouTube [2], considerati divulgatori di notizie false. A tal fine, è indispensabile, secondo gli esperti che hanno redatto il codice, un costante dialogo tra le piattaforme e i “factcheckers”, ossia quegli individui o siti d’informazione che si occupano esclusivamente di monitorare le notizie decretandone la verità o la falsità, su basi e presupposti tuttavia spesso alquanto aleatori e non privi di interessi politico-economici. È prevista quindi anche una particolare attenzione a quel tipo di pubblicità in rete che, oltre a perseguire fini commerciali, nasconde messaggi politici e non mancheranno maggiori strumenti  a disposizione degli utenti per permettergli di riconoscere e segnalare con maggiore facilità i siti o i contenuti disinformativi.

Inoltre, ci sarà una sorta di task force permanente che dovrà monitorare i risultati del nuovo codice di condotta e i firmatari avranno sei mesi per attuare gli impegni assunti: all’inizio del 2023 saranno fornite alla Commissione le prime relazioni sui risultati dell’attuazione, anche con il supporto del Gruppo dei regolatori europei per i servizi di media audiovisivi (ERGA) e dell’Osservatorio europeo dei media digitali (EDMO).

Risulta evidente che una simile iniziativa rende opachi i confini tra quello che potrebbe essere un effettivo contrasto alla disinformazione e una volontà di censura mascherata che si adatta bene alle esigenze di un sistema che ha la necessità di mantenere, almeno sulla carta, strumenti e modalità democratiche: nella complessità che caratterizza i problemi contemporanei, infatti, pretendere che esista qualcuno in grado di stabilire con certezza esclusiva la verità assoluta pare quantomeno inverosimile. Anche considerato che gli stessi “esperti” hanno dato prova di essere non di rado in disaccordo tra loro.

Se da un lato, dunque, il nuovo codice potrebbe servire a ridurre la disinformazione, dall’altro, potrebbe certamente anche limitare la libera circolazione di idee, opinioni e fatti contrastanti rispetto a quelli stabiliti dalle “autorità”. Il che mal si addice a una società – quella genericamente definita “occidentale” – che fa della democrazia e della libertà d’espressione il suo stendardo e il suo principale elemento di superiorità rispetto ad altre civiltà a cui pretende – peraltro – di impartire lezioni.

[di Giorgia Audiello]