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Il M5S non va fino in fondo e la sfida sulle armi si conclude con l’ennesima sconfitta

Il presidente del Consiglio Mario Draghi si è presentato oggi, alle ore 15, in Senato per le comunicazioni riguardanti il Consiglio europeo di giovedì prossimo, incentrato [1] sulla guerra in Ucraina e sulle future azioni comunitarie, tra cui la concessione dello status di candidato a Ucraina, Moldavia e Georgia e «gli aiuti a famiglie e imprese colpite dalla crisi». Proprio sullo sviluppo del conflitto, è nata una particolare richiesta supportata dall’attuale leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte e osteggiata dal ministro degli Esteri – nonché capo politico del M5S dal 2017 al 2020 – Luigi di Maio, che per giorni ha alimentato gli spettri della scissione, fino a concretizzarli in occasione delle comunicazioni di Draghi in Senato con la raccolta firme necessaria a formare un nuovo gruppo nell’Aula, che secondo le indiscrezioni si chiamerà “Insieme per il Futuro”. La mela della discordia di via di Campo Marzio è stata la richiesta di subordinare le decisioni dell’esecutivo in materia di invio di armi a Kiev al Parlamento.

A marzo sia la Camera dei Deputati sia il Senato della Repubblica (dove il M5S è la prima forza politica) hanno approvato [2] la conversione in legge del decreto-legge “Ucraina”, contenente – tra le altre misure – l’invio di “mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari” a Kiev fino al 31 dicembre 2022, data in cui è prevista la cessazione dello stato di emergenza legato al conflitto in Ucraina. In sostanza, il Parlamento ha autorizzato il governo a fornire armamenti a Kiev senza ulteriori e futuri passaggi legislativi, che avrebbero potuto vincolare l’esecutivo all’Aula, ricorrendo a un elemento tipico di una democrazia parlamentare. A questo punto, il governo non solo non ha chiesto più autorizzazioni per l’invio di armi ma ha anche secretato le liste che dettagliano le forniture, tagliando fuori i parlamentari da qualsiasi valutazione e sottolineando – attraverso le parole di Mario Draghi rivolte al Senato – «che l’Italia continuerà a sostenere l’Ucraina come fatto finora. Come il Parlamento ci ha già detto di fare, come ci avete chiesto voi».

La riflessione riguardante la strada intrapresa a marzo dalla Repubblica italiana dura poco: delegare all’esecutivo un aspetto così importante delle relazioni esteri del paese non era l’unica opzione, soprattutto alla luce degli strumenti legislativi in capo alle Camere. Da notare come le modifiche al decreto-legge avanzato dal governo Draghi ci siano state, ma non relativamente ai futuri consensi da parte del Parlamento in materia di invio di armi. Un Parlamento composto da 232 funzionari pentastellati (155 alla Camera e 72 al Senato) che non si sono opposti alla misura e che soltanto dopo mesi hanno iniziato ad alzare la voce, nemmeno fino in fondo, dal momento in cui hanno preso parte alla risoluzione (approvata) di maggioranza alle comunicazioni di Mario Draghi, che prevede un “ampio coinvolgimento delle Camere riguardo le misure di sostegno alle istituzioni ucraine, comprese le cessioni di forniture militari” ma che continua a fare riferimento alle modalità tracciate [3] dal decreto-legge n.14 del 2022 e quindi all’invio di armi senza votazione parlamentare.

La non incisività e le vicende interne delle ultime settimane segnano [4] la rapida parabola del Movimento 5 Stelle, presentatosi come il partito dell’innovazione e finito per adeguarsi a quegli aspetti politici – tra cui i diktat europei e le politiche di austerità – tanto criticati in campagna elettorale. La spinta “rivoluzionaria” si è esaurita, i cittadini hanno scoperto l’inganno e inevitabilmente il partito si è avviato verso percentuali di consenso minime, come evidenziato alle ultime amministrative. Così, al culmine di una irrepetibile legislatura, il M5S si sfalda, seguendo il profilo tipico dei partiti “personali” inaugurati con l’avvento di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana. Alla crescita della scala, per effetto delle difficoltà di contenimento delle sue componenti interne e per le contraddizioni pratico-ideologiche, questa tipologia di partito tende a scindersi in nuove e più piccole entità che assumeranno a loro volta forma personalizzata, alimentando le tentazioni dei capi-gruppo di fare partito a sé e l’instabilità politica.

[di Salvatore Toscano]