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Un’idea di città

Ha scritto Borges che l’immagine che abbiamo della città è sempre un po’ anacronistica. Forse è vero, se pensiamo irreparabile la degenerazione che le imprime il tempo e se abbiamo della città, di una certa città, una memoria inevitabilmente alterata. Ma la città è prima di tutto una forma simbolica, un labirinto organizzato di segnali che si depositano e si possono o no condividere, ma che, prima di tutto, bisogna cogliere. Ormai alle città si sono imposte le priorità del traffico, dello smaltimento dei rifiuti, dell’inquinamento, dei difficili rapporti con la periferia, dei rumori notturni, della sicurezza, dei senza dimora che dormono sotto i portici. Tutti meccanismi di gestione del contingente, poco di più.

L’orizzonte simbolico si è pietrificato, neutralizzato, nessuno si chiede che cosa è una città, quella particolare città, che cosa possiamo fare per lei, quasi fosse una dea da onorare. E invece ci si preoccupa genericamente dei modi con cui attrarre turismo, attività produttive, in competizione ovviamente con altre città, che sono però parzialmente o totalmente differenti, e avrebbero dunque altre prerogative, altri destini.

I meccanismi in opera sono di impronta unicamente economica, come se una città fosse un’azienda con il suo mercato e i suoi competitori. La solita metafora che ci ha posseduto e insieme ha frustrato qualsiasi altro modo di pensare, di proiettarsi. Se però l’azienda è una metafora, allora bisogna anche chiedersi chi sono le maestranze, chi i disoccupati nell’azienda-città, chi gli azionisti, chi i dirigenti, chi i responsabili delle risorse umane. A insistere finiremmo fra il tragico e il ridicolo ma sveleremmo l’inconsistenza e la presunzione di questa idea.

Bisogna invece pensare al desiderio, alle aspettative: alle città “che continuano attraverso gli anni e le mutazioni a dare la loro forma ai desideri” e alle città invece “in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati” (Italo Calvino, “Le città invisibili”). Primo fra tutti, sembra, il desiderio di rispetto che innesca reazioni di violenza nelle periferie, dove i soggetti sono tagliati fuori dallo svolgere ruoli realmente attivi nella comunità (C. Ward, “La città dei ricchi e la città dei poveri”, edizioni e/o 1998).

Joseph Rykwert, grande storico dell’architettura, nel suo libro ” L’idea di città”, del 1976, puntava l’attenzione sui meccanismi di una identità specifica, dove la città sarebbe storicamente un’invenzione, fondata e mantenuta in uno stretto rapporto tra cielo e terra, tra divino e umano, tra ideale e realtà, con una certa fedeltà a sé stessa, pronta a espandersi e ad accogliere in un modo che soltanto lei, grazie anche alla sua posizione astronomica, e dunque al suo carattere, poteva offrire. Ma Rykwert avverte in conclusione del suo libro che, essendo ormai “improbabile che si possa trovare una base di certezza in un universo che la cosmologia continua rimodellare senza posa intorno a noi”, questa base dobbiamo cercarla in noi stessi: nella costituzione e nella struttura della persona umana” (trad.it. Einaudi 1981, p. 262). Tanto per ricordarlo agli amministratori di oggi, Roma aveva istituito la cittadinanza transitoria. Chi veniva a Roma godeva per i giorni del soggiorno dello statuto di:”Cives Romanus sum”.

La città, ogni città sviluppava in origine un potenziale che soltanto lei poteva avere, quasi fosse un individuo, con un suo stile e un suo modo d’essere. E, in quanto tale, destinata agli incontri, alla vita di relazione, in una semplice dimensione quotidiana e in una prospettiva a cui partecipare.

Molti i modelli di città, reali o utopistici, progettati o spontanei. Qualche volta penso alla città come all’espansione di una enorme aiuola spartitraffico, dove il traffico corre tutt’intorno, all’esterno, e dove il verde e il costruito si dividono il suo interno.
Nel mondo antico la città era un luogo da raggiungere, dove attivare commerci e dove sostanzialmente ci si fermava uno o più periodi della vita, senza pretendere nulla, senza attendersi l’impossibile, oppure era il luogo di insediamenti famigliari che si perpetuavano per molte generazioni.

Si dice che la città dove io abito, Torino, sia stata fondata dai reduci di una legione romana che aveva combattuto in Egitto e che aveva come insegna la divinità egizia del toro, espressione di lotta e di potenza: Augusta Taurinorum. Quindi, giustamente, Torino ha finito per vantare un grande, celebre Museo Egizio. Una città dunque fondata da soldati provenienti da varie patrie, una città nata multipolare, multietnica, una colonia di reduci rassegnati ma anche assetati di autonomia e di riconoscimenti. Una aspettativa difficile da dichiarare e da difendere in tempo di pace. Ne è derivata una città ambiziosa, esposta tanto ai successi quanto alle frustrazioni, nell’inevitabile avvicendarsi di battaglie vinte e di battaglie perdute.

Giustamente, per restare sull’astronomico-zodiacale, a chi è segno del Toro viene riconosciuta la tendenza a essere sospettoso, a non fidarsi degli estranei, a perdonare e dimenticare con difficoltà. Ma anche la propensione positiva a mostrare lealtà e tenacia.
Altro che impronta operaia, quella fa parte della storia che va e viene, l’imprinting degli astri ha la natura del carattere e dell’istinto, che è difficile, forse inutile, tentare di cambiare.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]