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Come è prodotto il salmone affumicato? Un esempio malato della filiera alimentare

Per comprendere come l’industrializzazione della filiera del cibo sia deleteria da tutti i punti di vista – sociale, ecologico e della salute – niente può essere più utile di raccontare un caso specifico. Partendo da un alimento che gli italiani consumano in gran quantità e generalmente considerato benefico. Ma la realtà che si nasconde dietro a una confezione di salmone è molto diversa…

Il salmone da allevamento

Il salmone non è un pesce di per sé molto grasso se lo peschiamo in natura, cioè nel mare selvaggio e nei fiumi freddi in cui risale seguendo le correnti. Il suo grasso si aggira attorno al 2-3% al massimo, ma come per molti altri cibi l’industrializzazione ha stravolto anche i suoi principi nutrizionali. Quello proveniente dagli allevamenti industriali intensivi ha livelli di grasso che toccano il 9%. È un problema? Sì, innanzitutto perché come abbiamo detto i contaminanti tossici si accumulano nelle parti grasse del pesce, e poi perché la qualità degli acidi grassi di un pesce allevato è meno pregiata di quella di un  pesce pescato. Cosa significa? Che le sostanze grasse presenti nelle carni del pesce sono diverse come tipologia (lo stesso avviene nel manzo, suino e pollo), ovvero il grasso non è solo grasso e non è sempre uguale. È composto da varie tipologie di acidi grassi e in diversa percentuale a seconda della  qualità della vita che fa il pesce o l’animale in genere: può presentare più acidi grassi saturi o meno, più polinsaturi o meno (Omega-3), a seconda di quello che il pesce mangia e di come vive. Ecco perché la qualità dei grassi del pesce allevato è notevolmente inferiore rispetto a quella del pesce pescato. Non solo ha 3 volte tanto i grassi di un pesce che vive libero in mare, ma questi sono di una qualità peggiore, più infiammatori per chi mangia poi questo cibo. Basta fare una ricerca in rete con le parole “farmed salmon VS wild salmon” [1] (salmone allevato contro salmone selvaggio) per vedere apparire centinaia di articoli e foto che mostrano in un colpo d’occhio la differenza tra le due carni, proprio nello spessore del grasso visibile.

Nel salmone allevato vediamo vistose strisce di grasso bianco, mentre in quello selvaggio sono talmente sottili da non essere viste quasi a occhio nudo. Questo dipende dal fatto che negli allevamenti intensivi i pesci sono letteralmente messi all’ingrasso con alimentazione ipercaloriche giornaliera, per aumentare di taglia e per un accrescimento veloce, che soddisfa la richiesta in quantità sempre più elevata nella nostra società divoratrice (basti pensare al fenomeno dilagante del sushi e dei ristoranti All you can eat degli ultimi anni, dove il salmone da allevamento è il cibo principe). Anche il colore della carne differisce tra salmone allevato e selvaggio. Quello selvaggio ha la carne di colore arancione intenso, in quanto in mare il salmone si nutre di gamberetti e krill, minuscoli crostacei arancioni. Invece il salmone allevato vive dentro una vasca e si nutre di mangimi, e non sviluppa la colorazione rosa o arancione. La colorazione delle carni del salmone allevato è grigia. Come rimediano le industrie di produzione? Aggiungendo nelle ultime settimane di allevamento un colorante arancione, che trasformerà il colore della carne in un rosa-arancio pallido, diverso comunque dall’arancio del salmone selvaggio.

Leggi piegate alle esigenze dell’industria

Un allevamento di medie dimensioni produce circa due milioni di salmoni  all’anno. Solo nell’area di Bergen, nei fiordi della Norvegia, ce ne sono un migliaio. Il Paese scandinavo ne è il maggior produttore, ma molti allevamenti
son presenti anche in altre aree del mondo, soprattutto in Cile e Scozia. Per allevare il salmone si utilizzano sostanze chimiche tossiche e farmaci contro i pidocchi che attaccano i salmoni, sostanze che vengono spruzzate dentro le vasche oppure aggiunte al mangime. Le aziende produttrici negano di effettuare trattamenti chimici, ma mentono. A testimoniarlo diverse riprese video [2] realizzate da organizzazioni ambientaliste. In particolare gli allevamenti di salmoni sono infestati dal pidocchio di mare [3], un parassita killer che si attacca alla carne del pesce e se ne nutre, distruggendo letteralmente tutta la pelle esterna del pesce prima di consumare le sue carni interne. C’è solo un prodotto che ormai funziona contro questo pidocchio, e si chiama Diflubenzuron. Una sostanza chimica potenzialmente cancerogena per l’uomo, secondo l’Agenzia per la Sicurezza Alimentare Europea (EFSA), comunque autorizzata sia in agricoltura che nell’allevamento dei salmoni norvegesi [4]. Sembrerebbe logico valutare scientificamente il rischio che corrono i consumatori di salmone norvegese, invece i legislatori europei preferiscono agevolare gli interessi dei produttori. Nel 2013 il governo norvegese ha aumentato di 10 volte il limite consentito di un pesticida miscelato nel mangime dei salmoni, l’endosulfan. Nonostante la Commissione Europea abbia classificato l’endosulfan come sostanza indesiderabile per l’uomo, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (RFSA) ne ha autorizzato l’uso nei mangimi animali. Queste due sostanze sono associate negli studi scientifici a disturbi neurologici, autismo, obesità, diabete e cancro.

[Un salmone dentro le gabbie di allevamento, che presenta l’infestazione da pidocchio di mare e le carni lacerate dal parassita. Image credit: Artifishal, documentario sugli allevamenti di salmone norvegesi.]
All’appello delle sostanze tossiche usate nell’allevamento dei salmoni manca un terzo elemento, il conservante etossichina. Viene aggiunto direttamente nel mangime dei salmoni. Questo conservante è considerato genotossico per l’uomo dalla Commissione Europea, cioè in grado di danneggiare il DNA umano, ed è stato vietato in agricoltura nella produzione della frutta. Nonostante ciò, la stessa Commissione Europea autorizza l’uso dell’etossichina negli allevamenti di salmone, senza preoccuparsi se questo conservante passi
dai mangimi alle carni del salmone che poi noi consumatori mangiamo. Ebbene, dall’analisi chimica condotta su richiesta del programma Rai “Indovina chi viene a cena” su alcune confezioni di salmone prelevati in supermercati italiani, ha rivelato la presenza di etossichina in 2 confezioni su 3 [2]. A quanto pare però questa presenza di sostanze tossiche nella carne del salmone presente in commercio non preoccupa minimamente i ministri della salute degli Stati membri dell’Unione Europea, riuniti a Bruxelles. Queste informazioni non vengono semplicemente rese pubbliche. Anzi, sembra proprio che vi sia l’intenzione di nascondere tante problematiche che riguardano l’industria del salmone allevato.

L’insostenibilità del pesce d’allevamento

E quindi per quanto riguarda il buon salmone ricco di Omega-3 cosa dobbiamo fare, rinunciare definitivamente a mangiarlo? Possiamo almeno ripiegare nel salmone selvaggio, pescato anziché allevato, e ben più costoso?

Purtroppo anche su questo fronte non ci sono buone notizie. In primis anche il pesce pescato ormai è un alimento piuttosto inquinato e contaminato da sostanze tossiche, sebbene i pesci di taglia piccola siano quasi esenti da questa contaminazione, e quindi sono da favorire nelle scelte di acquisto. Ma è indubbio che dagli anni Settanta in poi un mare di sostanze tossiche è stato riversato negli oceani dall’opera distruttiva dell’uomo. Insetticidi, antibiotici, pesticidi, diossine e metalli pesanti, oltre alle microplastiche, da 40 anni stanno compromettendo pesantemente l’ecosistema marino e quindi la salubrità del pescato. Eppoi c’è il problema della pesca selvaggia e incontrollata, sempre più grande in quanto per allevare pesci carnivori come le trote, le orate e i salmoni, servono altri pesci, o meglio servono mangimi animali a base di farina di pesce e olio di pesce, che si ottengono con la lavorazione del pesce pescato.

In poche parole: togliamo pesce dal mare per nutrire i pesci di allevamento che sono a loro volta un’industria insostenibile e inquinante. Il salmone allevato viene nutrito in parte con farine di pesce e olio di pesce, spesso derivati da esemplari marini di pesce azzurro come acciughe, sardine e aringhe. Questi ultimi sono proprio i pesci più salutari e di piccola
taglia, più ricchi di Omega-3, che in teoria dovremmo consumare noi anziché destinare ai mangimi. Che certi allevamenti intensivi non siano sostenibili lo dicono i numeri: per ottenere un chilo di salmone da allevamento servono circa 5 chili di pesce azzurro, più sano e ricco di proprietà nutrizionali, che spesso arriva fra l’altro dai mari del Sudamerica, dove un po’ di pesce sulle tavole invece non farebbe male.

Acquacoltura: una lunga scia di devastazioni

● Allevamento di specie carnivore

L’allevamento di pesce di tipo intensivo si è orientato principalmente verso le specie carnivore, quindi stiamo parlando di pesci predatori – primo fra tutti il salmone – che per nutrirsi richiedono significative quantità di altro pesce. In media, per un chilo di prodotto finale destinato alla vendita, occorrono 5 chili di pesce trasformati in mangime. Ciò significa che per allevare un salmone di 3 chili di peso, occorrono 15 chili di pesce pescato (il che è sicuramente un notevole “spreco” di materia prima). Questa acquacoltura produce un utilizzo inaccettabile delle risorse del mare e non può certo rappresentare un’alternativa alla pesca! Spesso, inoltre, le farine alla basedei mangimi sono ottenute da pesci pescati all’altro capo del mondo. Pertanto, vi saranno da aggiungere ulteriori costi ambientali, di trasporto, inquinamento e stoccaggio del pesce pescato all’altro capo del mondo.

● Produzione di reflui altamente inquinanti

Gli allevamenti intensivi di pesce producono dei reflui inquinanti, dovuti alle deiezioni dei pesci, agli scarti di mangime che non vengono consumati, ai residui di antibiotici somministrati al pesce in vasca. A causa di tali immissioni, la composizione chimica dell’acqua cambia e può favorire la crescita di alghe che producono tossine pericolose per gli organismi marini e per l’uomo. Quando un ecosistema è ormai troppo compromesso per ospitare un allevamento, l’impianto è semplicemente spostato altrove. Gli esempi più tipici di questo tipo di inquinamento sono gli allevamenti di gamberi delle zone
tropicali (Vietnam, Thailandia, Filippine, Bangladesh, Ecuador e Brasile) e gli impianti di salmonicoltura dei fiordi norvegesi. In Vietnam e nelle Filippine sono stati trovati batteri resistenti a vari antibiotici usati in questi impianti di allevamento di gamberi, con conseguenze potenzialmente gravi per la salute umana.

● Inquinamento massiccio dell’ecosistema attraverso varie sostanze chimiche

Negli allevamenti intensivi l’utilizzo di antibiotici è regolare in quanto l’elevata
densità di pesci negli spazi favorisce il diffondersi di malattie. Per prevenirle è prassi comune aggiungere antibiotici al mangime, ma ciò favorisce lo sviluppo di batteri resistenti nei sedimenti e sui fondali. Il tempo necessario poi per bonificare tale ecosistema è molto ampio, di alcuni decenni almeno. Per questo motivo si sposta semplicemente l’allevamento in un altro sito, quando
l’ambiente è ormai inquinato e compromesso.

● Distruzione degli ecosistemi naturali

Lungo le coste del Sudest asiatico, per dare spazio agli allevamenti di gamberi e gamberetti, continuano a essere abbattuti chilometri quadrati di foreste di mangrovie. È un danno irreparabile: distruggendo le foreste si determina la scomparsa di tutte le specie (pesci, crostacei, uccelli, ma anche mammiferi) che in esse si riparano e si elimina una protezione naturale contro le tempeste e i maremoti. Le mangrovie infatti costituiscono una barriera contro il vento e assorbono parte dell’energia delle onde e delle maree, proteggendo la costa.

[di Gianpaolo Usai]