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Per la prima volta è stato individuato il DNA di un abitante morto nell’eruzione di Pompei

Per la prima volta è stato [1] letto il DNA di una delle vittime della violenta eruzione del Vesuvio che, il 24 agosto del 79 d.C., devastò Pompei. Finora erano stati analizzati solo frammenti del DNA mitocondriale – molto più semplice di quello del nucleo cellulare -, sia di esseri umani sia di animali dell’antica città. Oggi, con la decifrazione del DNA nucleare, si potranno ottenere dettagli preziosi sulla vita di un uomo morto moltissimo tempo fa, e questo aprirà nuove strade nelle ricerche riguardanti l’antica Roma.

Il genoma decifrato da un team di ricercatori italiani, appartiene a un individuo di sesso maschile, molto probabilmente malato, che venne ucciso dalla violenta eruzione che investì Pompei, Ercolano e Stabia – a sud di Napoli – le quali vennero ricoperte da enormi nubi di cenere ardente, tanto che Pompei – città portuale romana e sede di commercio e affari – venne scoperta e riportata alla luce secoli dopo. A partire dal Settecento, infatti, iniziarono una serie di scavi che diedero vita a uno dei siti archeologici più conosciuti e meglio conservati di sempre, grazie allo spesso strato di ceneri il quale ha fatto sì che corpi, edifici, oggetti e strade si conservassero nel tempo. Ed è proprio in uno degli edifici meglio conservati, la Casa del Fabbro, che negli anni Trenta gli archeologici scoprirono gli scheletri dell’uomo il cui codice genetico è stato letto, e di una donna.

La ricerca ha tracciato il profilo dell’uomo: questo era alto circa 1.64 e aveva tra i 35 e i 40 anni. Inoltre, l’analisi dei frammenti del suo DNA mitocondriale (mtDna all’interno dei mitocondri che si eredita per via materna) ha rilevato geni specifici delle popolazioni sarde, le quali si pensa derivino da migrazioni avvenute durante il Neolitico, dall’Anatolia (antica regione dell’Asia occidentale in parte corrispondente alla moderna Turchia). Altra informazione trapelata dalla ricerca riguarda lo stato di salute del soggetto. Difatti è stata individuata la presenza del DNA di Mycobacterium tuberculosis, il microrganismo responsabile della tubercolosi. Più precisamente, i ricercatori, analizzando le vertebre dello scheletro, hanno ipotizzato che l’uomo fosse affetto dalla malattia di Pott (spondilite tubercolare), una forma di tubercolosi extrapolmonare il cui batterio si localizza nella colonna vertebrale causando dolore, rigidità muscolare e gravi difficoltà nei movimenti.

Per concludere, la ricerca dimostra la possibilità di estrarre materiali genetici anche se molto degradati. Studiare i resti biologici di siti come Pompei, infatti, è difficilissimo, in quanto le elevate temperature tendono a danneggiare – se non distruggere – la composizione delle ossa, abbassando la probabilità di riuscire a estrarre quantità sufficienti di DNA per gli approfondimenti. Questa volta, però, i materiali vulcanici sono stati di aiuto, in quanto hanno funzionato da “teca” per i resti archeologici, creando un ambiente privo di ossigeno – gas catalizzatore di reazioni – e di protezione da agenti atmosferici e fattori ambientali che normalmente degradano la materia organica. Questo particolare, aggiunto ai modernissimi metodi di sequenziamento oggi disponibili, hanno permesso al team di mappare l’intero DNA dell’uomo, ma non quello della donna di mezza età ritrovata accanto a lui, in quanto troppo deteriorato.

[di Eugenia Greco]