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Le principali compagnie minerarie si ritirano dai progetti di estrazione in Amazzonia

In Brasile alcune delle più grandi compagnie minerarie al mondo hanno ritirato la richiesta di ricerca ed estrazione mineraria nelle terre indigene della foresta amazzonica, bocciando il tentativo del presidente Bolsonaro di far approvare una proposta di legge che consentisse l’attività mineraria estrattiva in queste aree. Pur non dichiarandosi contrarie all’estrazione mineraria nelle terre native, infatti, tali grandi aziende richiedono che venga realizzato un impianto legislativo che tenga conto della volontà dei nativi e che abbia il minor impatto possibile sulla foresta pluviale.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro non ha perso tempo e, all’inizio dello scorso marzo, ha immediatamente fatto pressione sul Congresso affinché fosse approvata con voto d’emergenza una legge [1] che permettesse di regolamentare l’estrazione mineraria nelle terre indigene. La motivazione addotta da Bolsonaro circa la necessità di tale provvedimento stava nel fatto che la guerra minacciava le forniture di fertilizzante potassico proveniente dalla Russia e del quale il Brasile è il maggior importatore al mondo. Un quarto della domanda viene soddisfatta dalla Russia, che al momento ha però interrotto le esportazioni. Tuttavia, secondo numerosi critici, lo scopo della legge sarebbe quello di fornire un quadro di copertura legale a migliaia di cercatori, in quanto la maggior parte delle miniere di potassa brasiliane non si trova in terreni nativi.

Ibram, l’organizzazione della quale fanno parte oltre 130 associati responsabili dell’85% della produzione mineraria in Brasile, ha dichiarato [2] che “la regolamentazione delle attività economiche nelle terre indigene deve essere ampiamente dibattuta dalla società brasiliana” e che queste possono essere realizzate “solo dopo un ampio dibattito e l’approvazione di regolamenti specifici da parte del Parlamento brasiliano”. Delle aziende che fanno parte di Ibram, al momento, nessuna sta svolgendo ricerche per alcun tipo di minerali nelle zone indigene, comprese le giganti del settore Rio Tinto, Anglo American Vale, le quali hanno confermato di aver ritirato le richieste di concessioni tra il 2019 e quest’anno.

Il presidente di Ibram, Raul Jungmann, ha dichiarato [3] ad Associated Press che “non è possibile richiedere autorizzazioni minerarie e di ricerca sulle terre indigene a meno di non disporre di un regolamento costituzionale“. La Costituzione brasiliana stabilisce infatti la possibilità di estrazione mineraria solamente dopo aver ottenuto il consenso informato delle popolazioni locali e seguendo specifiche leggi che regolamentino l’attività estrattiva. Tuttavia sono 30 anni che, in Brasile, si attende l’approvazione di una simile legislazione e Bolsonaro, fervente sostenitore della necessità delle estrazioni, ha cercato in tutti i modi di ostacolarne la realizzazione.

Come prevedibile, Jungmann ha precisato che Ibram non è contraria in linea di principio all’estrazione nelle terre indigene. Tuttavia, la legge proposta da Bolsonaro è “inadeguata perché non rispetta la Risoluzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che richiede il consenso libero, preventivo e informato”, e non impedisce “l’estrazione mineraria illegale”. In aggiunta a ciò, e in linea con quanto dichiarato [4] sul proprio sito, Ibram ritiene sia necessaria una legge che “preservi l’ambiente, in particolare la foresta pluviale”. Jungmann ha persino incontrato i presidenti di entrambe le camere del Congresso, per spiegare loro l’opposizione delle aziende alla legge. Le compagnie afferenti a Ibram hanno trascorsi di sfruttamento delle terre e conflitti con le popolazioni locali, motivo per il quale il loro sostegno alla causa indigena suona quantomeno curioso.

Fino ad oggi, ad ogni modo, i legislatori si sono rifiutati di mettere ai voti la proposta di Bolsonaro.

[di Valeria Casolaro]