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Tra filantropia e interessi politici: il fallimento del progetto COVAX

Sin da prima che i vaccini contro il Covid fossero scoperti e prodotti, il leit-motiv di governi e istituzioni in tutto il mondo è stato che la vaccinazione avrebbe rappresentato l’unica via d’uscita dalla pandemia. Garantire un equo accesso alle dosi, dunque, sarebbe stata la chiave di volta per il ritorno a una vita pre-pandemica. Eppure, l’obiettivo di vaccinare quantomeno il 70% della popolazione mondiale entro la fine del 2021 è fallito: secondo gli ultimi dati disponibili, infatti, mentre i Paesi ad alto reddito hanno un tasso di vaccinazione (ovvero di ricezione di almeno una dose di vaccino) che si aggira intorno al 70% (e arriva a superarlo ampiamente), i Paesi africani sfiorano appena il 21%.

Un accesso equo alla tutela sanitaria

«Nessun altro evento come la pandemia di Covid-19 ha dimostrato che affidarsi a poche aziende per la fornitura di beni pubblici globali è limitante e pericoloso». È quanto ha dichiarato [1] nel febbraio di quest’anno il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel corso di un summit con l’Unione europea. «A medio e lungo termine – ha aggiunto – il modo migliore per affrontare le emergenze sanitarie e raggiungere la copertura sanitaria universale è quello di aumentare significativamente la capacità di tutte le regioni di produrre i prodotti sanitari di cui hanno bisogno, con un accesso equo come obiettivo primario».

Nel corso della cerimonia sono stati annunciati i primi sei stati africani (Egitto, Kenya, Nigeria, Senegal, Sudafrica e Tunisia) che quest’anno riceveranno la tecnologia necessaria per produrre vaccini mRNA direttamente nel continente, dopo che un hub globale di trasferimento delle tecnologie mRNA era già stato istituito a giugno 2021 [2] in Sudafrica. L’obiettivo è avviare l’indipendenza dei Paesi a basso reddito da quelli ricchi, dai quali sono dovuti dipendere nel corso della pandemia per l’importazione dei vaccini e della strumentazione sanitaria (con risultati molto scarsi). Nel gennaio 2022 (sette mesi dopo l’installazione dell’hub) la compagnia africana Afrigen [3], utilizzando la sequenza genetica disponibile pubblicamente utilizzata da Moderna, ha realizzato con successo un lotto da laboratorio di vaccino. Il CEO di Afrigen Petro Terblanche ha tuttavia specificato: «Abbiamo sviluppato i nostri processi perché Moderna non ci ha dato nessuna tecnologia. Abbiamo iniziato con la sequenza di Moderna, ma questo non è il loro vaccino: è il vaccino di Afrigen mRNA Hub».

Affinché il vaccino sia approvato dovrà essere prodotto in quantità sufficiente perché possa essere avviata la sperimentazione clinica ed essere approvato dall’Autorità di regolamentazione dei prodotti sanitari sudafricani (Sahpra). Tuttavia, in Sudafrica non esistono strutture con la capacità di produrre lotti di vaccini delle dimensioni necessarie per effettuare i trial clinici, motivo per il quale la produzione ha dovuto essere commissionata al di fuori del Paese. Per terminare l’intero percorso di sviluppo clinico potrebbero essere necessari sino a 3 anni. Questi processi, ha dichiarato l’OMS, sarebbero molto più semplici se le grandi case farmaceutiche condividessero la propria conoscenza riguardo la manifattura dei vaccini.

Decolonizzare il sapere

Decentrare (e decolonizzare) il processo di produzione dei vaccini era possibile da tempo. Lo aveva mostrato con chiarezza uno studio [4] realizzato da Achal Prabhala, coordinatore del progetto AccessIBSA (volto ad estendere l’accesso ai medicinali anche alle persone più bisognose e che rifiuta categoricamente finanziamenti diretti o indiretti dalle industrie farmaceutiche) e da Alain Alsalhani, esperto di vaccini della campagna Access di Medici Senza Frontiere. Secondo i ricercatori, sono almeno un centinaio le strutture, distribuite tra Africa, America Latina e Asia, all’interno delle quali è possibile produrre vaccini. Tuttavia, numerosi critici [5] (soprattutto all’interno delle Big Pharma) ancora sostengono che la produzione di Pfizer e Moderna sia troppo complessa perché possa avvenire senza la supervisione delle aziende, al punto che permetterne la produzione potrebbe addirittura costituire più un male che un bene. Questo mantra, accompagnato dalla riluttanza dei Paesi ad alto reddito, è stato ripetuto sin dal 2020, quando Sudafrica e India hanno avanzato la richiesta di rinuncia alla proprietà intellettuale sui vaccini. Nel marzo [6] di quest’anno si è (forse) finalmente giunti a un accordo tra Stati Uniti, Unione Europea, India e Sudafrica riguardo una deroga parziale sui brevetti a favore dei Paesi in via di sviluppo. L’accordo potrà essere validato solamente se votato all’unanimità da tutti i 164 Stati membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e permetterà ai produttori dei Paesi autorizzati di realizzare i vaccini senza il consenso del titolare del brevetto, per un periodo che va dai 3 ai 5 anni. Le Big Pharma, neanche a dirlo, si sono opposte duramente: una decisione del genere, dicono, minerebbe la capacità del settore di rispondere adeguatamente a future pandemie. Ad ogni modo nessuna decisione definitiva sarà presa prima di sei mesi. Troppo poco, troppo tardi.

Il prezzo del diritto alla salute

Dalla scoperta e prima realizzazione dei vaccini contro il Covid, questi sono stati accessibili per la maggior parte soprattutto dai Paesi più ricchi, che hanno potuto pagare le proprie dosi. Tanto le prime quanto i successivi richiami: in Italia l’AIFA ha autorizzato la quarta dose lo scorso febbraio. Negli Stati Uniti la media è di 166 dosi disponibili ogni 100 abitanti, in Canada 210, in Cina 224, secondo le stime di Bloomberg. Chad, Sud Sudan e Cameroon hanno a disposizione meno di 5 dosi ogni 100 persone. La Repubblica Democratica del Congo meno di una. Secondo le statistiche più recenti, la percentuale di soggetti che hanno ricevuto almeno una dose nei Paesi ad alto reddito si aggira tra il 70 e il 75%. In Africa sfiora appena il 21%. Secondo la Commissione per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali delle Nazioni Unite tale disparità ha radici [7] nelle non troppo distanti dinamiche della schiavitù e del colonialismo, in quanto “privilegia le ex potenze coloniali a scapito degli Stati precedentemente colonizzati e dei discendenti dei gruppi schiavizzati”. L’accesso ad un adeguata assistenza sanitaria, insomma, ripropone, attualizzandole, vecchie (e mai interrotte) dinamiche di dominio.

Secondo diversi schieramenti politici, una deroga ai brevetti avrebbe fatto poca differenza in termini di possibilità di accesso ai vaccini. Di un simile parere è Andrei Iancu, direttore dell’Ufficio Brevetti e Marchi commerciali degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Trump, che ha dichiarato che i problemi “non hanno nulla a che fare con la proprietà intellettuale”, ma dipendono dagli ostacoli normativi e dai problemi di spedizione. Sarebbe come dire che non vi è nessun bisogno di offrire l’opportunità ai Paesi a basso reddito di produrre da sé i vaccini, dobbiamo solo organizzare meglio le spedizioni. Un approccio che non fa altro che reiterare i meccanismi di dipendenza e mantenere i Paesi in via di sviluppo in una condizione di subordinazione, per ragioni che in tutta evidenza hanno più a che fare con interessi di tipo commerciale che motivazioni di tipo sanitario.

COVAX: tra filantropia e interessi politici

La possibilità di accompagnare i Paesi a basso reddito verso una progressiva autonomia del processo produttivo e di distribuzione dei vaccini è stata, quindi, accantonata sin da subito (per essere poi ripresa di recente, ora che la pandemia da Covid-19 sembra avviarsi verso le fasi finali). In alternativa, è stato fondato nel 2020 COVAX [8], il programma di collaborazione internazionale creato con l’obiettivo di garantire un accesso equo ai vaccini per il Covid, nonché ai test diagnostici e alle terapie. Il programma è co-gestito da CEPI [9], Gavi [10] (realtà associative che si occupano dello sviluppo e di garantire un’equa distribuzione dei vaccini nel mondo) e OMS, con l’UNICEF come partner chiave. Il progetto è nato [11] proprio dal “fallimento globale nella condivisione equa dei vaccini”, dovuto al fatto che “La maggior parte dei produttori ha ampiamente rifiutato le opportunità di condividere la tecnologia, il know-how e le licenze orientate alla salute pubblica” nonostante l’esistenza di progetti volti ad ottenere questo scopo, tra i quali l’hub creato dall’OMS in Sudafrica. Tra i 190 Paesi che vi hanno aderito, solamente quelli ricchi avrebbero potuto avere accesso alle dosi pagandole a prezzo pieno.

Il progetto mirava, con il sostegno dell’ONU, a distribuire oltre 2 miliardi di dosi nel 2021, delle quali almeno 1,3 miliardi da destinare ai Paesi a basso reddito. La realtà dei fatti, tuttavia, si è dimostrata essere molto diversa dalle aspettative: le dosi consegnate [12] nel 2021 sono state meno della metà di quelle previste (910 milioni), una cifra irrisoria rispetto alle 9,25 miliardi di dosi somministrate globalmente nel 2021. L’intento filantropico alla base dell’iniziativa si è poi completamente dissolto nel momento in cui le singole nazioni hanno agito perseguendo unicamente i propri interessi diplomatici e commerciali, trasformando COVAX in un’istituzione mossa da motivazioni in primo luogo politiche, al servizio degli interessi dei partner più ricchi pur mantenendo viva una retorica di equità e solidarietà. Questo ha fatto sì che l’intero progetto assumesse quei toni paternalistici e caritatevoli dai quali inizialmente aveva mostrato di volersi tener lontano, parlando di equo accesso globale alle cure.

I fallimenti nella logistica

Così, spesso, le dosi promesse sono state consegnate in ritardo, in quantità nettamente inferiori a quelle promesse e con termini di scadenza molto brevi, tutti elementi che hanno di fatto reso impossibile la pianificazione di una campagna vaccinale nei Paesi svantaggiati. L’obiettivo di soddisfare interessi divergenti tra loro, ovvero la richiesta di vaccini da parte sia dei Paesi al alto reddito che di quelli più poveri, è stato fortemente minato dalle accentuate asimmetrie di potere inerenti all’organizzazione stessa. Complice di tutto ciò vi è la mancanza di trasparenza e meccanismi di attribuzione di responsabilità all’interno della struttura di governance estremamente complessa di COVAX, che si pone come partnership pubblico-privata che deve tutelare sia gli interessi dei governi che quelli dei partner aziendali. Spesso, in barba al meccanismo dell’equa ridistribuzione, alcune nazioni hanno scelto di destinare grossi quantitativi di materiale a specifici Paesi riceventi. Così, il 30% delle donazioni di dosi a livello globale non è avvenuto tramite COVAX, ma grazie ad accordi bilaterali, come nel caso delle donazioni di Russia, India e Cina ai Paesi vicini o alleati. Va sottolineato poi come nessuna azienda farmaceutica ad oggi abbia effettuato alcun tipo di donazioni al progetto.

L’appello degli amministratori di COVAX di condividere le dosi in anticipo è stato ampiamente ignorato sino alla seconda metà del 2021, quando è arrivata la maggior parte delle donazioni: oltre la metà della cifra totale è stata consegnata nelle ultime sei settimane dell’anno, contribuendo a causare non pochi problemi nella logistica della distribuzione nei Paesi riceventi e compromettendone la campagna vaccinale.

In una dichiarazione congiunta [13] rilasciata da COVAX, Africa CDC (Centro per il Controllo delle Malattie) e AVAT (Fondo per l’Acquisizione dei Vaccini Africani) il 29 novembre 2021 è la stessa organizzazione a denunciare le problematiche dovute all’egoistico comportamento dei governi più ricchi, che hanno determinato una qualità scadente delle donazioni. “La maggioranza delle donazioni giunte ad oggi [29 novembre 2021] sono state ad-hoc, fornite con brevissimo preavviso e data di scadenza breve. Questo ha reso estremamente difficile per i Paesi organizzare delle campagne di vaccinazione e aumentare la capacità di assorbimento”. I sistemi sanitari dei Paesi africani infatti, già messi estremamente sotto pressione dalla pandemia in corso, non hanno così potuto organizzare la conservazione e la distribuzione delle dosi rispettando i criteri necessari (come la catena del freddo) e organizzare campagne vaccinali prima della scadenza delle dosi. Così si è dovuto assistere a episodi come quello avvenuto all’inizio del dicembre 2021 in Nigeria [14], un Paese dove meno del 4% della popolazione aveva allora ricevuto un ciclo completo di vaccini il cui governo ha dovuto distruggere oltre 1 milione di dosi perché scadute. Pur di disporre di qualcosa con cui vaccinare la popolazione, il Paese aveva accettato lotti giunti con scadenza brevissima. La settimana prima Reuters aveva calcolato che almeno un milione di dosi erano scadute in Nigeria nel mese di novembre.

Stando alle evidenze raccolte, è chiaro che la nozione di potere geopolitico deve includere anche il potere di cui le aziende e le fondazioni private dispongono nel determinare l’andamento di una crisi economica e sanitaria. Si tratta di un criterio da tenere bene a mente nel momento in cui si debbano fare proiezioni e ipotesi sull’andamento di future crisi sanitarie, in quella che è stata definita “l’era delle pandemie [15]“.

[di Valeria Casolaro]