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La crisi ucraina fa segnare il record dei profitti per l’industria fossile

La crisi energetica in corso, legata in parte al conflitto in Ucraina, non sta avendo risvolti drammatici per tutti. Anzi, per qualcuno si sta trattando di una vera e propria occasione d’oro. È il caso delle compagnie fossili, che, a quanto pare, dalla situazione attuale hanno avuto solo che da guadagnarci. Nel solo primo trimestre del 2022, i dati finanziari mostrano infatti che 28 dei maggiori produttori di petrolio e gas hanno ottenuto quasi 100 miliardi di dollari di profitti complessivi. In particolare, sono 93,3 i miliardi entrati nelle casse dei principali colossi fossili principalmente grazie alla recente impennata dei prezzi delle risorse che questi commerciano. A rivelarlo, è stata un’inchiesta dell’organizzazione Climate Power [1].

L’olandese Shell ha raggiunto 9,1 miliardi di dollari di profitto, quasi il triplo di quanto guadagnato nello stesso periodo dello scorso anno. Cifre simili e altrettanto importanti per la statunitense Exxon i cui guadagni si sono aggirati sugli 8,8 miliardi di dollari. Chevron ha aumentato i suoi profitti a 6,5 miliardi di dollari mentre BP, con 6,2 miliardi di dollari, ha perfino registrato i più alti incassi del primo trimestre dell’ultimo decennio. Coterra Energy, un’azienda con sede in Texas, ha registrato invece il maggior guadagno relativo tra le 28 società analizzate, con un aumento dei guadagni del 449% rispetto all’anno precedente. Stesso discordo per l’italiana Eni che, sebbene non sia stata considerata in questa valutazione, ha visto crescere i suoi utili, nell’ultimo trimestre 2021, del 53%.

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Le importazioni UE di materie prime dalla Russia sono in forte diminuzione in termini quantitativi (segno azzurro) , ma generano un flusso monetario in aumento vertiginoso (segno arancio) a causa dell’aumento dei prezzi, causato principalmente proprio dalle sanzioni [fonte: Eurostat].
Potrebbe sembrare un paradosso, eppure è proprio quel che sta accadendo: chi, direttamente o indirettamente, è in qualche modo responsabile delle attuali crisi globali – energetica e climatica – è allo stesso tempo chi ne sta beneficiando. E non è certo la prima volta. Secondo diversi studi accademici – come riporta un rapporto [3] di Greenpeace – quasi la metà delle guerre esplose dopo il 1973 ha un legame con il petrolio. Le ricerche attuali sul tema, sebbene non abbiano raggiunto l’unanimità sul ruolo diretto delle fonti fossili nei conflitti, concordano che gli idrocarburi sono spesso la concausa di guerre civili o interstatali. Senza contare poi che, a livello ecologico, ha perfettamente senso: la lotta per le risorse, in natura, è la principale ragione di competizione. Perché per noi dovrebbe essere diverso? Tra i casi più recenti citati dagli studi, figura proprio il conflitto russo-ucraino, oltreché le tensioni nel Mediterraneo orientale e nel Mar cinese meridionale.

Appurato è invece il ruolo dell’industria fossile nell’attuale crisi ecologica, innegabile al tal punto che ormai ogni colosso petrolifero sta cercando di ripulire la propria immagine. La maggior parte delle grandi compagnie petrolifere, ad esempio, si è dotata di propri obiettivi climatici. Tuttavia, queste promesse sono per lo più incentrate sulle emissioni derivanti dalle operazioni di trivellazione e trasporto di petrolio e gas, piuttosto che sul loro effettivo utilizzo da parte dei consumatori, il quale comporta invece la maggior parte dell’inquinamento. Poche aziende fossili, inoltre, riportano i loro investimenti in energie pulite e rinnovabili. E quelle che citano questi dati dimostrano che tali investimenti a favore del clima sono comunque un aspetto marginale, in genere solo pochi punti percentuali del bilancio complessivo. Insomma, niente di più che greenwashing.

[di Simone Valeri]