- L'INDIPENDENTE - https://www.lindipendente.online -

Svezia, proteste contro una miniera di ferro svelano i paradossi della transizione

Nell’Artico svedese sono in corso delle proteste che vedono riunite diverse associazioni ambientaliste e membri della comunità locale dei Sami. Le voci di opposizione insorgono contro la realizzazione di una miniera di ferro [1] a Gállok, vicino alla città di Jokkmok. La Svezia ha già dato l’approvazione alle attività estrattive nonostante diverse polemiche sorte fin dal principio. Il governo, paradossalmente, ha però giustificato la decisione spiegando che la miniera è indispensabile per una produzione sostenibile di acciaio e che contribuirà a ridurre le emissioni di carbonio. Tuttavia, secondo gli attivisti – tra i quali figura anche la giovane Greta Thunberg (che è di nazionalità svedese) – l’approvazione è avvenuta senza il “consenso libero, preventivo e informato” del popolo indigeno Sami, le cui risorse potrebbero essere minacciate dal progetto. Ad esempio, la miniera potrebbe interferire con la migrazione delle renne, allevate dai Sami nonché loro principale fonte di sostentamento.

Il progetto estrattivo coinvolgerebbe la compagnia britannica Beowulf Mining e la sua filiale svedese Iron Mines AB. Due esperti indipendenti delle Nazioni Unite in materia di diritti umani hanno però invitato [2] il governo svedese a non rilasciare la licenza ai sostenitori industriali di cui sopra poiché la miniera, oltre ai problemi già citati, genererebbe grandi quantità di metalli pesanti e rifiuti tossici. Come è possibile quindi che tale progetto possa essere difeso in nome della transizione ecologica? Il motivo è tanto semplice quanto contorto: la miniera è necessaria per il decantato processo di trasformazione ‘green’ portato avanti dalla Svezia, la quale ambisce ad una posizione leader nella conversione alla sostenibilità in Europa e nel Mondo. L’acciaio che verrà prodotto a partire dal ferro estratto dalla miniera di Gallok sarà infatti indispensabile per la costruzione dell’uno o l’altro impianto energicamente pulito.

Non dovrebbe quindi sorprendere che si inizi a parlare di ‘colonialismo verde’, il caso fin qui descritto, infatti, è tutt’altro che isolato. Non che la transizione energetica non sia indispensabile ma certo è che questa, quantomeno per coerenza, non dovrebbe imporsi così come ha fatto per decenni l’industria fossile. A maggior ragione non dovrebbe imporsi laddove la sostenibilità è già di casa, come in terre abitate ancestralmente dai loro popoli nativi. Per i fautori del progresso tecnologico e della crescita economica senza confini potrebbero non esserci alternative al generare comunque degli impatti sul territorio anche se il fine è quello di puntare alla sostenibilità. Ovvero, per dirlo con le parole [3] di Henrik Andersson, un pastore di renne del popolo Sami, «l’industria è industria, che sia verde o meno, il problema è che vogliono farci credere che la stessa industria che ci ha messo nella crisi ambientale ce ne tirerà fuori».

[di Simone Valeri]