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La battaglia del Perù per far ripulire alla Repsol il disastro ambientale provocato

Il 15 gennaio scorso seimila barili di petrolio si sono riversati [1] nell’Oceano Pacifico, al largo del Perù, durante il trasferimento di greggio dalla petroliera italiana Mare Doricum alla raffineria La Pampilla, dell’azienda spagnola Repsol. Successivamente al disastro ambientale, è stato imposto al colosso petrolifero l’obbligo di ripristinare l’area interessata. A febbraio, la Repsol aveva dichiarato di aver concluso la pulizia del 48% dell’area interessata, paragonabile per dimensioni al territorio di Parigi e comprendente 24 spiagge. Tuttavia, un’analisi effettuata dall’Organismo de Evaluación y Fiscalización Ambiental (OEFA) del ministero dell’Ambiente peruviano ha dimostrato come la Repsol, ad oggi, non abbia rispettato 5 dei 16 provvedimenti amministrativi emanati dall’Autorità di controllo ambientale. È emerso, inoltre, che la compagnia petrolifera spagnola stesse utilizzando una miscela di sabbia pulita e sabbia impregnata di petrolio per “bonificare” l’area interessata dal disastro, a nord di Lima.

Così, l’OEFA ha disposto la cessazione immediata delle attività, infliggendo alla multinazionale cinque sanzioni coercitive per un importo totale di 2.300.000 soles (560mila dollari). I punti non rispettati dalla Repsol riguardano l’identificazione delle aree interessate dallo sversamento e la loro bonifica, a cui si aggiunge il contenimento e il recupero degli idrocarburi (anche e soprattutto nelle aree naturali protette interessate dal disastro). Tra le misure, va ricordato inoltre il tentativo di arginare le conseguenze del secondo sversamento di petrolio al largo del Perù, avvenuto il 25 gennaio 2022. La presa di posizione del governo centrale pone un precedente importante nei rapporti fra Stati e multinazionali, spesso sbilanciati verso queste ultime, dimostrando come un’opposizione agli abusi delle grandi imprese petrolifere sia possibile. Innumerevoli sono [2] i disastri ambientali lasciati dalle multinazionali nei Paesi asiatici, africani o sudamericani che spesso non hanno la “forza” necessaria per opporsi agli abusi, soprattutto a causa delle diseguaglianze economiche che li spingono a concessioni e privatizzazioni per ottenere fondi stranieri. Si pensi, ad esempio, ai Paesi in via di sviluppo (PVS) che derivano gran parte del loro PIL dalle esportazioni di beni naturali venduti sui mercati dei Paesi industrializzati. Quando fattori interni ed esterni provocano una diminuzione del prezzo dei beni, questi Stati sono costretti a produrre di più, affidandosi a compagnie straniere che operano in virtù di un unico principio: il profitto, anche a spese dell’ambiente.

[Di Salvatore Toscano]