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Il Messico si oppone alle multinazionali nazionalizzando il litio

Il Parlamento messicano ha approvato una legge di iniziativa presidenziale che stabilisce la nazionalizzazione del litio, metallo prezioso utilizzato nella produzione di batterie di cellulari e auto elettriche. All’interno della misura, approvata con 298 voti favorevoli e 197 astensioni, è previsto l’affidamento della risorsa a un’impresa pubblica, il che ha scatenato diverse proteste da parte di investitori privati ed esperti. «Nel Paese esistono già concessioni minerarie a società private, tra cui le imprese straniere dedicate allo sfruttamento delle miniere che possiedono vari depositi di questo metallo prezioso», ha dichiarato in un’intervista a El Universal Juan Carlos Machorro, dell’azienda Santamarina + Steta.

Negli ultimi anni, la transizione verso l’elettrico ha puntato i riflettori sul litio, elemento cruciale in questo settore. Il Messico ha deciso di giocare d’anticipo per evitare di vivere un secondo periodo di sfruttamento, come accaduto in passato quando le sue riserve fossili sono finite nelle mani delle multinazionali, ottenendo in cambio ridotte percentuali sui profitti. Il 17 aprile scorso, il Presidente Andrés Manuel López Obrador ha avanzato anche una modifica nei confronti della legge costituzionale che regola le attività del settore elettrico, ottenendo però una bocciatura. Visto il rango della norma, Obrador avrebbe dovuto ottenere infatti una maggioranza di due terzi, quindi 332 voti. La riforma si è fermata a 275 consensi e così il ritorno della maggioranza (53%) di questo settore industriale nelle mani della Commissione federale dell’elettricità (CFE), un organismo pubblico, non avverrà, confermando invece l’ingerenza delle imprese private e straniere. Lo scopo della legge approvata, nonché di quella che non ha raggiunto il quorum, è chiaro: garantire l’autodeterminazione dello Stato e ribadire la propria sovranità energetica, cruciale per lo sviluppo indipendente di un Paese. Tuttavia, José Jaime Gutiérrez Núñez, Presidente della Camera mineraria del Messico (CAMIMEX), ha affermato che la Costituzione considera i minerali come proprietà della nazione e quindi «devono essere utilizzati nell’ambito di uno schema trasparente di concessioni che generano assistenza sociale al Paese», ritenendo incongrua e non necessaria la nazionalizzazione.

È evidente come gli interessi in gioco siano alti, racchiusi tra due posizioni differenti e distanti: chi vuole spingere sulle concessioni e privatizzazioni e chi, invece, vuole ribadire la sovranità del Paese, consapevole di come la presenza delle multinazionali possa influenzare la vita di uno Stato, soprattutto in America del Sud. Si pensi al golpe in Guatemala del 1954 o a quello più recente della Bolivia, dove nel 2019 il socialista Evo Morales si è dimesso su invito delle forze armate e polizia. Diversi analisti sostengono che alla base del colpo di Stato ci fossero gli interessi economici, in particolare il controllo dei giacimenti di litio che iniziavano a far gola a livello mondiale. Dal 2021 a oggi, il prezzo del minerale è aumentato [1] del 157%, con previsioni a rialzo, visto i diversi dubbi sulla capacità da parte dell’offerta di soddisfare la domanda prevista per il 2030: circa 2 milioni di tonnellate. Di questi, 1.6 milioni saranno probabilmente destinati alla produzione di batterie di dispositivi elettrici. Si spiegano, dunque, le preoccupazioni delle aziende attive in questo campo, una su tutte Tesla, in vista di una nazionalizzazione del litio in Messico, dove tra le diverse imprese opera una società mineraria di capitale cinese e inglese, il cui 50% della produzione viene destinato proprio all’azienda statunitense. Secondo diverse stime, la miniera in gestione alla società straniera avrebbe una riserva di circa 243 milioni di tonnellate di minerali, tra cui ovviamente il litio.

[Di Salvatore Toscano]