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Lo Sri Lanka dichiara default e si getta tra le braccia del Fondo Monetario Internazionale

Fra le strade dello Sri Lanka nelle ultime settimane si sente un solo grido: «Gota vattene a casa». Gota sta per Gotabaya Rajapaksa, presidente del paese, appartenente ad una dinastia che in pratica governa su tutto lo Sri Lanka da 20 anni. Mahinda, uno dei fratelli, ricopre la carica di primo ministro, mentre Basil Rajapaksa e Chamal, rispettivamente ministri delle finanze e dell’irrigazione, si sono dimessi qualche giorno fa insieme a tutto il parlamento (ma non il presidente né il primo ministro). La popolazione è in rivolta da settimane [1]. La gente accusa la dinastia Rajapaksa di essere la principale causa del tracollo economico e finanziario [2] che sta mettendo in ginocchio il paese. I soldi stanno per terminare e le riserve monetarie sono praticamente esaurite. Gli esperti dicono che sono rimasti in “cassa” meno di 600 milioni, cioè denaro a malapena sufficiente per coprire il costo delle importazioni di una sola settimana. È diventato difficile reperire gasolio, fertilizzanti, [3] medicinali, cibo e le autorità staccano l’energia elettrica per più della metà della giornata.

Ecco perché il 12 aprile il Governo ha ufficialmente dichiarato il default, cioè quella condizione economica per cui le entrate finanziarie statali (le tasse) non sono sufficienti a coprire le uscite dello stato.

Tra le altre cose, significa quindi che il Governo smetterà di ripagare il debito estero (sia le obbligazioni che i prestiti concessi da Governi e istituzioni internazionali), perché «dobbiamo concentrarci sulle importazioni essenziali e non possiamo preoccuparci del servizio del debito estero», ha sottolineato Nandalal Weerasinghe, a capo della Banca centrale. Andando più nel dettaglio, negli ultimi 15 anni lo Sri Lanka ha contratto debiti per il 65% del PIL, e nel 2022 ha in scadenza circa 4 miliardi di dollari di oneri. Come riporta il Sole24ore [4], Fitch – agenzia internazionale di valutazione del credito – crede che al paese serviranno “altri 2,4 miliardi di dollari per rimborsare i debiti contratti da aziende statali e private”.

Per far fronte alla crisi, le autorità hanno deciso di indebitarsi ulteriormente, aprendo un negoziato con il Fondo monetario internazionale (FMI) che, ricordiamolo, è un’istituzione con sede a Washington, a cui partecipano 188 paesi, con la finalità di “promuovere la stabilità economica e finanziaria”. In concreto, un programma che teoricamente dovrebbe “ristrutturare il debito”, modificando cioè le condizioni originarie di un prestito (tassi, scadenze, divisa, periodo di garanzia) per alleggerire nel tempo la posizione del debitore. Stando a quanto si apprende dalle fonti governative, le contrattazioni sono in corso e non senza malumori, espressi soprattutto dall’ex capo della Banca centrale Ajith Nivard Cabraal, che fino all’ultimo si è opposto all’accordo definendolo «una ferita alla sovranità del Paese».

Il FMI salverà quindi il paese dal collasso? No, o meglio, è bene sottolineare che il denaro concesso dal Fondo monetario non è a costo zero. I paesi che ricevono aiuti dal FMI devono accettare delle clausole e delle regole molto rigide, compresi tagli ai settori dell’educazione, della sanità e dei servizi pubblici. In pratica, i paesi debitori sottoscrivono dei “piani di aggiustamento strutturale”, impegnandosi a intervenire duramente sulle proprie politiche economiche con privatizzazioni e riforme di stampo liberista. Delle condizioni che in altri paesi non solo non hanno risolto strutturalmente il problema del debito, ma hanno anzi alla lunga aggravato le condizioni economiche dei paesi interessati. Basta guardare il caso dell’Argentina, che negli anni ha usufruito più volte di questa risorsa [5].

[di Gloria Ferrari]