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Le parole giuste, cioè la cultura come arma di pace

“Chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data per patria? La patria è quello che l’anima nostra va cercando e che per lei è caro sopra ogni cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria! E la porterò questa patria nel mio cuore, la porterò finché durerà la mia vita”. Andrej, figlio del leggendario cosacco Taras Bul’ba ha tradito i suoi ed è pronto a morire per mano del padre che lo accusa di amare una giovane polacca conosciuta a Kiev. La donna diventa per lui la vera patria e anche così si consuma lo strappo con gli ordini del padre, con le proprie origini e con una certa visione del mondo.

Nikolaj Gogol’, nato nel 1809 vicino a Poltava, in Ucraina, nel romanzo breve Taras Bul’ba narra le epiche imprese dei cosacchi, impegnati sino alla morte nella lotta contro polacchi, ebrei e musulmani ma nello stesso tempo descrive in toni mitologici, edenici la steppa da loro attraversata, che si distendeva fino al Mar Nero, “come un oceano verde-oro, in cui sprizzavano milioni di fiori variopinti… Sospesi nel cielo stavano gli sparvieri, con le ali spiegate e gli occhi immobili, fissi nell’erba… Talora il cielo notturno in varie parti era rischiarato da un lontano fulgore rossastro, da un incendio di canne secche nei prati…”. Taras finirà catturato dai polacchi e verrà bruciato vivo, legato a un albero. E Gogol’ gli attribuirà così una fine mitica, con quello speciale legame tra morte gloriosa e dimensione divina che discende dagli eroi greci dell’Iliade omerica: “Ci sarà un tempo in cui imparerete a conoscere che cosa è la religione russa ortodossa! Già fin d’ora lo sentono le nazioni lontane e vicine: sorgerà dalla terra russa il suo zar, e non ci sarà al mondo una forza che non si umilii dinanzi a lui!”.

È il conflitto tra la modernità di Andrej e la pesante (ancora viva) tradizione incarnata da Taras che bisogna saper cogliere, quella speciale verità come coincidenza degli opposti che è tipica di tutto il pensiero slavo, l’eredità di un ragionare simbolico, visionario che proviene dallo scisma di Oriente e che da Costantinopoli è approdato a Kiev. 

La vita è il vero luogo in cui si manifesta la verità. Così Pavel Florenskij, il grande filosofo russo (ucciso dopo anni di detenzione in un lager staliniano in Siberia), sosteneva che la verità va riconosciuta dove si mostra, prescindendo da astratti schemi intellettuali. C’è, a suo parere, alla base l’illusione dell’Occidente e la sua dannazione a voler ogni volta esaurire con spiegazioni la profondità dei fenomeni, a sostituire le prospettive molteplici della realtà con univoche risposte senza alternative, a cancellare la dimensione comunitaria a vantaggio sempre delle esigenze del soggetto, c’è l’incapacità “di dire il rapporto tra la fede e il sapere, condannando il cristianesimo all’insignificanza” (G. Lingua). Alla base si presenta una questione che, a partire dal pronunciamento del Concilio di Nicea dell’anno 787, diventa indissolubile nella liturgia orientale: “nella tradizione biblica la parola suona, è ascoltata, mentre in quella cristiano-ortodossa essa viene contemplata. La parola è vista, l’immagine (l‘icona) è ascoltata” (D. Ferrari-Bravo).

Quando, negli anni Venti del Novecento, si affacciò in linguistica la scuola formalista, di stampo soprattutto slavo, a determinare le leggi interne dell’arte poetica e con la sua ‘Morfologia della fiaba’ Vladimir Propp (1928) individuò gli schemi ricorrenti del funzionamento dei racconti, tutto questo fu possibile grazie a una vera e propria rivoluzione, consistente nel porre al centro il linguaggio, come aveva mostrato la poesia simbolista e quella futurista. Quasi fosse possibile svincolarsi da qualsiasi contenuto, dando invece il privilegio alle sonorità, alla forza espressiva e trasgressiva della parola, sostituendo quasi alla teologia della bellezza, agli interrogativi romantici sul ruolo della persona e delle masse nel mondo, l’orizzonte visionario e caleidoscopico delle avanguardie.

Nella Russia del secondo Ottocento c’era stata, a partire da Potebnja sino ad arrivare, nel Novecento, a Vygotskij, la visione potente della centralità della parola, non tanto come rappresentazione del pensiero ma in quanto dotata di una sua specifica forza creativa, come organo di formazione del pensiero, il che permetteva di creare una vera e propria scienza letteraria che saldasse la visione mitologica delle sedimentazioni narrative del passato, e dei suoi contenuti ricorrenti, con la energia delle  nuove visioni formali.

“Le parole-idee sono le voci del mondo , la risonanza dell’universo, la sua ideazione. La parola è ideazione del cosmo”. La parola è il mondo, la conoscenza del mondo si compie attraverso la parola, così scriveva Sergej Bulgakov. Per parte sua Michail Bachtin, l’autore di straordinari studi sul romanzo, affermava che ogni enunciazione linguistica non si limita a trasmettere significati, a produrre comunicazione, ma crea ogni volta qualcosa di nuovo che prima non esisteva. La parola insomma, in quanto atto, annotava il semiologo Jurij Lotman, ha “una forza particolarissima, incomparabile”.

I nostri sono tempi in cui per superare la gravità di quanto accade occorre dotarsi di una consapevolezza speciale, quella di saper cogliere, nel mondo slavo la particolare commistione tra spiritualità, o se preferite esaltazione religiosa, e visione linguistica delle cose, con una creatività e una prospettiva a cui bisogna lasciare margini di incomprensione.

Il regista Andrej Tarkovskij, nel suo splendido libro, Scolpire il tempo, 1988, osservava che nella Russia attuale si erano oscurate certe tradizioni culturali. Quelle ad esempio che permettono di riconoscere che “l’anima è assetata di armonia e che la vita è disarmonica”. Come dice Aleksander nel film Sacrificio, “l’uomo si è difeso dalla natura e l’ha violentata. Il risultato è una civiltà fondata sulla forza, sulla paura, sulla dipendenza. Il peccato è ciò che non è necessario. Tutta la nostra civiltà è basata sul superfluo… e fondamentalmente sbagliata, figlio mio”. E quanto a un altro suo film, Stalker, Tarkovskij dichiarava che il protagonista viveva sì momenti di disperazione, che la sua fede barcollava, “ma ogni volta egli avvertiva nuovamente in sé la propria vocazione a servire gli uomini che hanno smarrito le proprie speranze e le proprie illusioni” (Scolpire il tempo, Ubulibri, p. 275).

Vedere insomma in una guerra, che è sempre e comunque sbagliata, uno scontro di civiltà, significa non soltanto non capire, non voler capire, ma ricoprire con un manto di ignoranza, di silenzio e poi di violenza, la miseria sì ma anche la grandezza, nel bene e nel male, dell’esperienza umana.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]