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Anche Bosnia e Kosovo vogliono entrare nella NATO, ma per paura della Serbia

L’invasione russa dell’Ucraina ha aperto il Vaso di Pandora, colmo di quelle rivendicazioni territoriali che in molti credevano concluse nel corso del XX secolo, a seguito dei due conflitti mondiali e del sanguinoso processo di decolonizzazione. Tuttavia, questa certezza, almeno in Europa, era già stata minata alle fondamenta dal conflitto dei Balcani che negli anni ’90 dello stesso secolo colpì l’area, devastandola. A distanza di trent’anni, complice anche la guerra in Ucraina, lo sguardo torna a essere puntato proprio sul territorio dell’ex Jugoslavia, dove Bosnia ed Erzegovina e Kosovo hanno manifestato [1] la volontà di entrare a far parte della NATO, non temendo un’invasione della Russia ma di un suo partner europeo, la Serbia, che nelle ultime settimane ha avviato ampie esercitazioni militari nei pressi del confine kosovaro.

Le tensioni nell’area affondano le radici in un lungo e tortuoso processo storico, che ha vissuto diverse fasi critiche, tra cui le due guerre balcaniche (1912-1913) e quelle Jugoslave. A questi anni risalgono le uccisioni di massa compiute dalle forze serbe ai danni delle popolazioni bosniache e kosovare, le prime a maggioranza cattolica e le seconde a maggioranza musulmana. Nonostante i Trattati successivi, la preoccupazione nell’area è rimasta alta, come dimostra la decisione di quasi la totalità dei Paesi balcanici di entrare a far parte della NATO, ultimi il Montenegro (2017) e la Macedonia del Nord (2020). A fare eccezione è la Serbia, che vede l’Alleanza più come un nemico, soprattutto dopo l’operazione “Allied Force” che nel 1999 causò [2] tra le 1200 e 2500 vittime. A essa, si aggiungono appunto Kosovo e Bosnia ed Erzegovina, due Stati legati a Belgrado: il primo da un punto di vista storico, considerato da sempre dalla Serbia come una propria estensione, anche durante l’esperienza jugoslava, quando il Kosovo era sì una provincia autonoma ma comunque parte del territorio serbo. La sua indipendenza, proclamata nel 2008, è riconosciuta attualmente da 98 Stati membri dell’ONU (su 193), ma non dalla Serbia, a cui si aggiungono, ad esempio, Russia e Cina, due Paesi impegnati [3] con Belgrado in diversi accordi bilaterali. Alla motivazione storica, se ne aggiunge una religiosa, visto che il Kosovo viene considerato una sorta di patria spirituale dalla Serbia, sede dell’Arcivescovo di Peć (cittadina del Kosovo occidentale) nonché vertice della Chiesa ortodossa del Paese. Per questi due motivi, Belgrado vede nel riconoscimento del Kosovo come entità autonoma una mutilazione territoriale e culturale. Nonostante ciò, lo Stato è intenzionato, in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli, a continuare sulla strada dell’indipendenza dalla Serbia e ad accedere alla NATO, come sostenuto [4] dalla presidente kosovara Vjosa Osmani.

La Bosnia ed Erzegovina, in seguito all’Accordo di Dayton, venne divisa in due entità: la Federazione Croato-Musulmana (51% del territorio nazionale) e la Repubblica Srpska (RS, 49% del territorio). Quest’ultima rappresenta il legame più forte che il Paese ha con Belgrado, dato che circa l’85% della sua popolazione è serba. Da anni, il territorio chiede l’indipendenza dalla Bosnia per unirsi alla Serbia, rappresentando uno dei punti più a rischio della regione, soprattutto nel contesto geopolitico attuale così delicato. Così, si sono delineate due direzioni completamente opposte all’interno del medesimo Paese: da un lato si profila l’idea di un referendum per aprire alla secessione (che potrebbe condurre a un conflitto tra Bosnia e Serbia), dall’altro lo Stato ha ribadito la propria partecipazione al Piano d’azione per l’adesione (MAP), visto come “l’ultimo passo prima di ottenere l’adesione alla NATO”, secondo il ministro della Difesa bosniaco Sifet Podzic.

[Di Salvatore Toscano]