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Covid, la ricerca conferma: il plasma iperimmune costa poco e funziona

Negli individui affetti da Covid-19, la maggior parte dei quali non vaccinati, la somministrazione di plasma convalescente entro 9 giorni dall’insorgenza dei sintomi ha “ridotto il rischio di progressione della malattia che porta al ricovero in ospedale”: è quanto emerso da uno studio [1] recentemente pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), con cui sono stati valutati gli effetti del trattamento con il plasma dei guariti in pazienti nelle prime fasi della malattia. Per condurlo, 1181 persone positive al Covid e di età compresa tra i 18 e gli 84 anni sono state sottoposte ad una trasfusione in media dopo 6 giorni dall’insorgenza dei sintomi: di queste, 592 hanno ricevuto il plasma convalescente e 589 il “plasma di controllo”, ovverosia quello non immunizzato. Successivamente, mettendo a confronto i due gruppi, è emerso che in quello trattato con il plasma convalescente 17 individui sono stati ricoverati in ospedale (il 2,9%), mentre nel gruppo trattato con il plasma di controllo sono state ricoverate 37 persone (il 6,3%). Risultati che – si legge nello studio – hanno determinato una riduzione del rischio assoluto di ricovero del 3,4% per le persone sottoposte al plasma convalescente, corrispondente ad una diminuzione del rischio relativo del 54%.

La conclusione a cui si è giunti tramite lo studio, dunque, è che il plasma convalescente possa ridurre il rischio di essere ricoverati se somministrato nelle prime fasi della malattia. In tal senso, inoltre, a quanto pare anticipando la somministrazione si potrebbero ottenere risultati migliori dato che – affermano gli autori dello studio – “in un’analisi di sottogruppo la trasfusione precoce (effettuata entro i primi 5 giorni dall’insorgenza dei sintomi) è sembrata essere associata ad una maggiore riduzione del rischio di ospedalizzazione”.

Un altro punto toccato all’interno dello studio, poi, è che mentre gli anticorpi monoclonali “sono costosi da produrre” il plasma convalescente “non ha limiti di brevetto ed è relativamente poco costoso da produrre, poiché molti singoli donatori possono fornire diverse unità”. Parole che fanno tornare alla mente il dottor Giuseppe De Donno – morto suicida l’estate scorsa [2] – che per primo aveva avuto l’idea di utilizzare il plasma iperimmune contro il Covid, definendo la terapia basata sulla sua trasfusione «una cura che non costa nulla». De Donno, la cui intuizione adesso sembrerebbe riacquisire valore, come da lui stesso denunciato [3] aveva però «ricevuto tantissime critiche ed attacchi», probabilmente anche dovute al fatto che in Italia la terapia basata sul plasma convalescente non è sostanzialmente mai stata presa sul serio.

Ad aprile 2021, infatti, uno studio promosso dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e dall’Istituto superiore di sanità (Iss) aveva sminuito il ruolo terapeutico del plasma convalescente con l’Aifa che, pur parlando dell’ipotesi di dover “studiare ulteriormente il potenziale ruolo terapeutico del plasma nei soggetti con Covid lieve-moderato e nelle primissime fasi della malattia”, sottolineava [4] che la ricerca non avesse “evidenziato un beneficio del plasma in termini di riduzione del rischio di peggioramento respiratorio o morte nei primi trenta giorni”. Risultati, dunque, che sembrano non coincidere con quelli dello studio appena pubblicato dal New England Journal Of Medicine, ma che potrebbero essere spiegati proprio dai commenti contenuti nello stesso: gli autori della ricerca, infatti, affermano che risultati negativi ottenuti in altre ricerche potrebbero essere stati influenzati da fattori quali “la mancanza di moderni progetti di studio”, “le dimensioni piccole del campione” o la “somministrazione tardiva rispetto all’inizio della malattia”.

Col tempo, quindi, a quanto pare i ricercatori stanno confermando che ci sia una validità scientifica alla base del trattamento basato sul plasma iperimmune, che evidentemente non a caso negli scorsi mesi era stato approvato in Russia. A darne notizia il 30 dicembre scorso era stata l’azienda statale Rostec, la quale aveva fatto sapere [5] che il farmaco “COVID-globuline” – basato sul plasma sanguigno convalescente – aveva “ricevuto il certificato di registrazione permanente dal Ministero della Salute russo” in quanto in grado di “aiutare l’organismo a prevenire l’aggravamento della malattia ed a superare l’infezione”.

[di Raffaele De Luca]