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A chi giova la guerra del gas? Gli USA sono già passati all’incasso

Lo scorso 25 marzo, in concomitanza con il viaggio in Europa del Presidente americano Joe Biden, Stati Uniti e Unione Europea hanno stretto un accordo bilaterale che prevede l’aumento delle forniture di Gas Naturale Liquefatto (GNL) USA all’UE, con l’obiettivo di ridurre almeno di due terzi entro quest’anno la dipendenza europea dal gas russo. Progressivamente lo scopo sarà quello di ridurre del tutto le importazioni di combustibili fossili da Mosca entro il 2027. Lo scoppio del conflitto russo-ucraino, infatti, insieme alla recente decisione del Cremlino di fare pagare le forniture di metano in rubli ai Paesi europei, ha fatto ulteriormente aumentare il prezzo dell’energia, costringendo Bruxelles a trovare fonti energetiche alternative. L’accordo tra USA e UE prevede, dunque, la creazione di una task force [1] congiunta che lavori per ridurre la dipendenza europea da Mosca, rafforzando la sicurezza energetica del Vecchio continente. Nel dettaglio, Washington si impegnerebbe a fornire ai partner europei 15 miliardi di metri cubi (bcm) ulteriori rispetto a quelli già concordati entro la fine del 2022 e ad esportare 50 bcm annui fino al 2030.

Tuttavia, la sostituzione delle importazioni di gas russo con quello americano non è così semplice, in quanto comporta problemi di natura tecnica, economica e ambientale: in primo luogo, la capacità di esportazione statunitense è già ai suoi massimi e di conseguenza si presenterebbe la necessità di sottrarre alcune forniture a quegli Stati che hanno già sottoscritto contratti con gli USA come ad esempio Giappone e Corea del Sud, alleati di Washington nell’area dell’Indo-pacifico. Ma i problemi più grandi derivano dagli aspetti tecnici e logistici: il GNL è, infatti, metano che viene liquefatto attraverso tecniche di raffreddamento e condensazione e trasportato su apposite navi cisterna: servono, dunque, particolari terminal per il carico e lo scarico delle cisterne e le infrastrutture necessarie per lo stoccaggio e la rigassificazione che consenta di pompare il GNL nei gasdotti tradizionali. Secondo le stime degli esperti, la costruzione di queste infrastrutture richiederebbe dai due ai cinque anni. Un lasso temporale che sicuramente gli Stati UE non possono permettersi. Inoltre, stando a quanto riporta Reuters [2], gli analisti di ING Bank hanno affermato che anche se l’aumento di 15 bcm fosse raggiungibile nell’arco del 2022, non sarebbe comunque sufficiente “a sostituire le importazioni di gas russe, che ammontavano a circa 155 miliardi di metri cubi nel 2021”.

Svantaggi economici e problemi ambientali

Se, da un lato, le importazioni di metano statunitensi non sono semplici sotto l’aspetto logistico e infrastrutturale, dall’altro non mancano gli svantaggi da un punto di vista economico e ambientale: proprio a causa delle lavorazioni di cui necessita il gas liquefatto – in particolare stoccaggio e rigassificazione – il costo industriale è in media più elevato del gas che arriva tramite i gasdotti dalla Russia come il Nord Stream. Si stima, infatti, che questo processo produttivo sia più costoso di circa il 20% rispetto all’importazione di gas naturale. In Italia, ad esempio, il gas russo viene importato per circa sette dollari per mmBtu (million metric British thermal units), un’unità di misura equivalente al barile per il greggio, mentre – stando a quanto riportato da un articolo del Sole 24 Ore [3] – “il GNL americano costa più dei sette dollari pagati dall’Italia per acquistarlo dalla Russia di almeno un 20%”. A questi costi vanno poi aggiunte le spese per la costruzione di nuove infrastrutture che permettano lo scarico delle cisterne, in vista dell’aumento di importazioni dagli Stati Uniti.

Dal punto di vista ambientale, invece, il metodo di estrazione del gas adottato non è privo di scompensi: gli Stati Uniti, infatti, estraggono il metano dalle rocce argillose – shale gas – considerate giacimenti non convenzionali per la difficoltà di raggiungimento e di estrazione: in questo caso, oltre alle tradizionali trivellazioni verticali, si ricorre anche a quelle orizzontali tramite la tecnica dell’hydrofracking o fratturazione idraulica: quest’ultima consiste nell’iniezione di una soluzione ad alta compressione di acqua e sabbia negli strati rocciosi per spaccarli. In questo modo viene liberato il metano intrappolato che viene raccolto e stoccato. Questa tecnica comporta diversi impatti ambientali negativi: può aumentare il rischio idrogeologico e provocare eventi sismici vicino ai siti di trivellazione. Inoltre, un ulteriore problema è dato dalla contaminazione delle falde acquifere e dalle grandi quantità d’acqua necessarie alla fratturazione. Tutto ciò sicuramente non è in linea con gli obiettivi di transizione ecologica previsti dall’UE e più in generale con gli obiettivi di salvaguardia ambientale.

Geopolitica dell’energia

Il conflitto tra Russia e Ucraina ha solo esasperato una condizione di dipendenza e scarsità energetica che affliggeva l’UE già prima dello scoppio delle ostilità e a cui hanno contribuito in modo determinante gli Stati Uniti: da sempre, infatti, Washington fa pressione su Bruxelles affinché riduca le sue importazioni di petrolio da Mosca e aumenti invece quelle di GNL americano. Già nel dicembre 2021, le esportazioni di gas statunitense verso l’Europa sono aumentate del 37% rispetto al gennaio dello stesso anno. In questo modo gli USA ottengono un doppio vantaggio di tipo economico e geostrategico: sostituiscono le importazioni russe aumentando i ricavi sulla vendita di gas e indeboliscono un potenziale asse tra Russia e Unione Europea e, in particolare, tra Mosca e Berlino, riconducendo il Vecchio continente nell’orbita atlantica sotto l’ala di Washington, anche in vista di un ricompattamento della NATO in funzione antirussa e anticinese. In questa cornice, fin dall’inizio del progetto, gli USA sono stati contrari alla costruzione e all’attivazione del gasdotto Nord Stream2 e già l’amministrazione Trump nel 2019 si era prefissata di aumentare del 50% le esportazioni di metano in Europa, con l’obiettivo di fare concorrenza al gas russo: in particolare, la Germania, che importa la metà del suo fabbisogno energetico dalla Russia, era dovuta scendere a patti con l’amministrazione Trump impegnandosi a realizzare una piattaforma per degassificare il gas liquefatto proveniente da oltreoceano in cambio di un tacito consenso degli USA alla realizzazione, allora già ben avviata, del Nord Stream 2. In realtà, gli americani non hanno mai gradito né accettato realmente la costruzione del gasdotto, sul quale hanno spesso minacciato di imporre sanzioni. Successivamente, sia l’aumento dei prezzi dell’energia prima della crisi ucraina, sia ora il conflitto e le conseguenze provocate dalle sanzioni imposte dalla stessa UE hanno giocato a favore di Washington e ai danni dei Paesi dell’Unione. Se, infatti, Mosca può compensare l’eventuale perdita dei mercati occidentali con gli emergenti mercati orientali – in particolare con India e Cina – e gli USA aumentano i loro guadagni attraverso l’incremento delle esportazioni, l’Unione Europea è l’unica a rimetterci non solo a causa di un aumento considerevole dei prezzi, ma anche a causa di una potenziale impossibilità di approvvigionamento: dal 31 marzo, infatti, Mosca potrebbe sospendere le forniture – che fino ad ora sono avvenute regolarmente – nel caso in cui i Paesi europei non fossero disposti a pagare in rubli e, allo stesso tempo, le esportazioni americane potrebbero non bastare o arrivare solo in parte per via della mancanza di infrastrutture. In questo contesto, da un lato, la stessa Unione Europea ha agito contro i suoi stessi interessi imponendo sanzioni ad un Paese con cui è in strettissimi rapporti commerciali e rinunciando al Nord Stream2, dall’altro Washington ha utilizzato Bruxelles come mezzo per perseguire i suoi interessi di natura geopolitica, compromettendone stabilità e sicurezza energetica.

Un cambio di strategia

Solo un cambio di strategia da parte dell’Europa che riveda la sua posizione nell’ambito dello scacchiere internazionale, dunque, potrebbe modificare lo stato delle cose: l’Unione Europea si configura, infatti, come un’entità di natura strettamente economica e monetaria, sprovvista di una propria politica estera e di un suo ruolo geopolitico strategico, in quanto interamente al traino degli Stati Uniti. Da questa condizione deriva anche la sua mancanza di sicurezza energetica, poiché quest’ultima è strettamente correlata a questioni di politica internazionale su cui Bruxelles ha dimostrato di non avere alcuna autonomia.

L’indipendenza energetica presuppone quella geopolitica, motivo per cui l’UE dovrebbe smarcarsi al più presto dall’influenza di Washington, puntando su una difesa comune e diversificando le fonti energetiche. Le soluzioni possibili, in un continente in grossa parte privo di idrocarburi, sono essenzialmente due: le rinnovabili e il nucleare. Tuttavia, considerati i lunghi tempi di attuazione, sono iniziative che i Paesi del Vecchio continente avrebbero dovuto intraprendere con maggiore rapidità già da tempo, onde evitare di rimanere schiacciati tra Mosca e Washington, innescando una speculazione dei prezzi al rialzo e una potenziale crisi economica e industriale senza precedenti. Infatti, si tratta di misure che permetterebbero di uscire dalla dipendenza energetica non prima del 2025 e sulle quali, in ogni caso, ora più che mai è necessario investire.

[di Giorgia Audiello]