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Recensioni indipendenti: I Am the Revolution (documentario)

Un documentario del 2018 di 53 minuti (visibile sulla piattaforma streaming di RaiPlay). Diretto dalla giornalista e regista Benedetta Argentieri e presentato in anteprima al DOC NYC [1], il più grande festival di documentari negli Stati Uniti. “I Am The Revolution” girato con una troupe tutta al femminile, segue sul campo tre donne che in ambiti e luoghi diversi lottano per una rivoluzione femminista in Afghanistan, Iraq e Siria.

Selay Ghaffar figlia di un combattente per la libertà morto sul campo è la portavoce di “Hambastagi” il partito della Solidarietà dell’Afghanistan, emarginato e perseguitato dal governo afgano, fondato nel 2004, unico partito laico e progressista del Paese e l’unico ad avere un leader donna. Dalle manifestazioni nelle città ai più sperduti paesini delle montagne, svolge la sua attività in prima linea a rischio della vita e sempre sotto scorta armata, per educare le donne a lottare per la loro indipendenza, focalizzando la sua attività sulla scolarizzazione, diritti delle donne, lotta al fondamentalismo, democrazia e opposizione alla presenza di USA e NATO in Afghanistan.

Yanar Mohammed ex architetto diventata attivista, co-fondatrice e presidente dell’OWFI (Organizzazione per la Liberazione delle Donne in Iraq) riconosciuta dall’ONU, ma non autorizzata legalmente dal governo iracheno, ha creato dieci rifugi segreti (fra questi un LGBTQ primo nel paese) per donne in fuga dalla tratta, da violenze familiari e dalla prostituzione. Dal 2003 al 2017 sono state salvate più di 500 donne e, cosa importantissima, sono state aiutate a riprendere in mano la propria vita scoprendo di dover tutelare la propria dignità nella piena consapevolezza che quanto avevano subito era profondamente ingiusto e inumano.

Rojda Felat in Siria ha combattuto nel conflitto in Rojava dall’inizio del 2012, diventando in pochi anni comandante in capo delle Forze Siriane Democratiche che hanno preso il controllo di una buona parte della regione settentrionale della Siria a maggioranza curda e hanno sconfitto l’ISIS nel Nord, riconquistando Raqqa. Del contingente al suo comando, formato da 60mila soldati fra uomini e donne, schierato con la coalizione politica curda YPG (Unità di Protezione Popolare) e YPJ (Unità di Protezione delle Donne), Rojda Felat dice di essere certa che tutti i suoi soldati, ma soprattutto gli uomini, preferiscono essere comandati da una donna. Soldati che muoiono in battaglia e che, senza alcuna discriminazione di genere, vengono onorati come eroi della liberazione accompagnati dal cantilenante peana delle madri e dall’ululato celebrativo dello zaghroutah.

Questo documentario per certi aspetti “rivoluzionario” come lo sono le donne che hanno il coraggio di opporsi ad una atavica sottomissione, ci fa capire, con la chiarezza di una attenta analisi, quanta forza e determinazione ci voglia per liberarsi da ignoranza e arretratezza. Quanto sia “rivoluzionario” partecipare a manifestazioni di piazza sempre a rischio di dure repressioni e come sia difficile spezzare quelle catene che le hanno costrette con la violenza a sentirsi non vittime, ma addirittura colpevoli tanto da meritare tutto ciò che viene loro imposto. Hijab e burqa nascondono, rendono anonime e invisibili queste donne che comunque sentono un forte desiderio di riscatto e mostrano inequivocabili segnali di una trasformazione, quella da vittime a persone consapevoli. Tre donne illuminate, femministe convinte, le aiutano e le guidano verso un difficile traguardo, quello di un più equo rapporto con gli uomini la cui violenza non è altro che paura e inadeguatezza come la regista fa capire nelle prime sequenze del film mostrandoci quanto, durante un dibattito politico in televisione, la portavoce di “Hambastagi” Selay Ghaffar viene insistentemente zittita con frasi assolutamente prive di contenuto, sessiste, addirittura minacciose. Dice bene l’attivista Yanar Mohammed: «Quale rivoluzione è più difficile della rivoluzione delle donne?».

[di Federico Mels Colloredo]