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30 anni di riforme hanno progressivamente posto la scuola italiana al servizio del mercato

Negli ultimi trent’anni si è assistito ad una serie di riforme che hanno radicalmente trasformato l’istruzione pubblica, orientandola sempre di più ad assecondare le esigenze e le richieste del mondo del lavoro, piuttosto che a promuovere l’amore per il sapere. Questa progressiva trasformazione del sistema educativo risponde a logiche ben precise che riguardano la volontà non tanto di formare culturalmente le generazioni future, quanto piuttosto di plasmarle secondo le esigenze del “mercato” e i desideri delle “classi dominanti”, all’interno di un contesto storico e culturale permeato interamente dalla forma mentis produttivo-capitalistica. Proprio per questo, le istituzioni scolastiche e universitarie si sono orientate sempre di più verso la trasmissione di una “conoscenza pratica” – che prepari su misura le future “classi lavoratrici” – piuttosto che verso un sapere “fine a se stesso” che possa forgiare umanamente e culturalmente i giovani, trasmettendo loro gli strumenti necessari per sviluppare il “senso critico”, ossia una capacità di analisi oggettiva e indipendente. Le diverse riforme del sistema scolastico che si sono susseguite nel tempo hanno portato, dunque, ad almeno due conseguenze degne di attenzione, una di tipo economico e l’altra di tipo ideologico-culturale: la prima riguarda il peso crescente dei fondi privati nelle amministrazioni universitarie, la seconda la preminenza degli insegnamenti tecnici e professionali su quelli “teorici”, in virtù della predilezione della dimensione pratica e produttiva su quella teoretica. Così, l’obiettivo della scuola non è più formare la “persona”, ma modellare su misura i futuri lavoratori dell’industria 4.0, coerentemente con le trasformazioni capitalistiche orientate alla Quarta rivoluzione industriale. Tutto ciò è l’esito di un processo che ha visto il susseguirsi di diverse tappe e che può essere fatto risalire almeno agli anni Novanta, quando la “Legge Ruberti” ha spianato la strada all’infiltrazione dei privati nelle istituzioni universitarie.

Legge Ruberti (1990) e Riforma d’Onofrio (1995)

La Legge Ruberti del 1990 – promulgata dall’allora Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica del VI governo Andreotti, Antonio Ruberti – prevedeva una maggiore autonomia statuaria, amministrativa e finanziaria delle amministrazioni dei singoli atenei, in netta discontinuità con il forte indirizzo centralista che aveva caratterizzato fino ad allora il sistema universitario. Per questo motivo è stata chiamata anche Legge dell’Autonomia [1]: se da un lato, questa legge ha permesso ai singoli atenei di scrivere i propri Statuti e i propri regolamenti interni, conferendo maggiore libertà di scelta sui corsi e i programmi di studio, dall’altro essa è stata usata come grimaldello per ridimensionare i contributi che il governo trasferiva agli atenei tramite il cosiddetto Fondo di finanziamento ordinario, con il pretesto di responsabilizzarne l’autonomia finanziaria. Di conseguenza, essa ha comportato innanzitutto un aumento generalizzato delle tasse universitarie – con un aumento del carico sugli studenti che è passato dal 3% al 20% – e, in secondo luogo, ha condotto alla necessità di attrarre finanziamenti privati, spianando la strada all’aziendalizzazione degli atenei, con i privati che avranno sempre più voce in capitolo nella scelta e nella programmazione dei corsi di studio. Del resto, la Legge dell’Autonomia si colloca proprio nella stagione storica delle grandi privatizzazioni italiane, che ha visto l’avvio dello smantellamento dell’IRI e la svendita del patrimonio pubblico: l’istruzione non è stata di certo risparmiata da questo fenomeno, il quale ha del resto interessato tutti gli ambiti riguardanti lo Stato sociale. Infine, nel 1995, l’allora Ministro della pubblica istruzione del primo governo Berlusconi, Francesco d’Onofrio, ha sostituito gli esami di riparazione con il debito formativo.

Riforma Berlinguer (1997) e Legge Zecchino (1999)

La riforma che porta il nome dell’allora Ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer nel governo Prodi I era articolata in due parti: la legge quadro del 10 dicembre 1997 n° 425 che modificava la disciplina dell’esame di maturità, rinominato Esame di Stato, e che prevedeva – e prevede tuttora – tre prove scritte e un colloquio interdisciplinare con la commissione, e la legge del 10 febbraio 2000 n° 30 sul riordino dei cicli dell’istruzione superiore. Quest’ultima rimase poi inapplicata, in quanto abrogata dalla Riforma Moratti del 2003. La successiva Legge Zecchino, dal nome del Ministro dell’Università sotto la presidenza d’Alema, riprendeva la riforma del suo predecessore Berlinguer e si basava su tre pilastri: l’autonomia scolastica, le competenze di base e il numero programmato nelle facoltà. Cominciava a consolidarsi il principio per cui la scuola e l’università devono preparare al lavoro pratico piuttosto che fornire una robusta formazione intellettuale e, infatti, le “competenze di base” a cui fa riferimento la legge riguardano il sapere o il non saper fare, senza peraltro chiarire cosa, come e in quanto tempo si debba saper fare. Questa impostazione della conoscenza intesa in termini puramente pratici sarà portata alle estreme conseguenze pochi anni dopo con l’introduzione dell’alternanza scuola – lavoro, attraverso cui si rende manifesta la volontà di allineare la formazione scolastica alle dinamiche del “mercato del lavoro”, trasformandola in un tassello essenziale del sistema produttivo.

La riforma Moratti del 2003

Con la riforma Moratti, introdotta dalla Legge n. 53 del 2003, iniziavano a concretizzarsi compiutamente gli obiettivi della “nuova scuola” modellata sulle esigenze del “mercato” e strettamente connessa alle rapidissime trasformazioni del mondo del lavoro che si sono susseguite a partire dagli anni 2000 in avanti. È impossibile, infatti, comprendere appieno le trasformazioni dell’istruzione se non le si collega con le metamorfosi della sfera lavorativa, avvenute all’insegna delle dottrine liberiste di matrice anglosassone. Non a caso, la riforma dell’istruzione effettuata sotto il mandato del Governo Berlusconi II si collocava all’interno di un contesto preciso che vedeva l’affermazione della flessibilità come caratteristica preminente del nuovo paradigma lavorativo del mondo globalizzato. All’interno di questa cornice, la riforma Moratti introduceva per la prima volta la cosiddetta alternanza scuola – lavoro [2]: se da un lato questa era giustificata con la volontà di agevolare l’inserimento degli studenti nella realtà lavorativa, dall’altro di fatto serviva a predisporre fin da giovanissimi i futuri lavoratori ad adeguarsi alle condizioni di lavoro imposte dal graduale smantellamento dei diritti conquistati faticosamente nel secolo scorso.
Nella stessa ottica di una formazione prevalentemente pratica orientata al “fare”, venivano incrementate le ore delle materie ritenute indispensabili per accedere all’ambito professionale, designate con l’espressione “tre i”: inglese, informatica e impresa. Parallelamente venivano anche introdotte le prove INVALSI – ossia prove standardizzate per rilevare il livello di apprendimento – che contribuiscono a conferire allo studio e ai test un carattere omologato oltreché puramente meccanico e nozionistico.

La riforma Gelmini del 2010

Se la riforma Moratti ha accelerato quel processo per cui il “sapere” viene piegato ai canoni della produttività, finalizzandolo prevalentemente all’attività lavorativa, con la riforma Gelmini si completa, invece, il processo di privatizzazione o aziendalizzazione dell’università cominciato negli anni Novanta con la “Riforma Ruberti” e si procede ad un drastico taglio delle risorse al Fondo di Finanziamento Ordinario, unica entrata statale per gli atenei. L’art. 16 della L. 133 del 2008 prevedeva, infatti, la possibilità di trasformare le università in fondazioni di diritto privato, fermo restando il loro carattere di enti non commerciali, dotati di autonomia gestionale, organizzativa e contabile. Secondo una stima effettuata dalla CIGL [3], tra il 2008 e il 2013, il taglio complessivo al Fondo di finanziamento ordinario è stato pari al 12,95%, corrispondente a 960 milioni di euro. In generale, la riforma ha comportato un drastico taglio ai finanziamenti di tutto il comparto dell’istruzione pubblica e lo stesso Napolitano avrebbe giustificato il provvedimento [4] con la necessità di ridurre a zero il deficit pubblico italiano, salvo poi sostenere nel 2010 che era necessario “rivedere alcuni tagli che sono risultati ingiustificati”. Proprio a causa del definanziamento a un settore importante come quello dell’istruzione, la riforma Gelmini è stata oggetto di numerose critiche sfociate in proteste e scioperi da parte del mondo scolastico e accademico. Infine, in continuità con la riforma Moratti, la riforma del 2008 introduceva l’alternanza scuola – lavoro nei piani di studio.

La “Buona Scuola” del governo Renzi del 2015

La riforma scolastica del governo Renzi ha ripreso diversi elementi delle riforme precedenti, a riprova del fatto che la “ristrutturazione” dell’istruzione ha seguito negli anni un filo conduttore preciso che fa della scuola il luogo preposto ad assecondare i cambiamenti imposti dall’alto, plasmando le future generazioni secondo criteri funzionali agli interessi delle multinazionali e del libero mercato. Tra i nuclei della riforma detta “Buona Scuola” vi è quello dell’autonomia scolastica – in continuità con la legge Ruberti – e il consolidamento dell’alternanza scuola – lavoro, in continuità con le riforme Moratti e Gelmini.

A parlare di autonomia sono i primi due articoli della Legge n. 107 del 2015, all’interno dei quali si individua la figura che deve ergersi a garante di questa riorganizzazione autonoma delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali della scuola: il Dirigente scolastico. Inoltre, viene lasciata la possibilità agli studenti di personalizzare il piano di studio e viene incrementata l’assunzione degli insegnanti. Le critiche mosse da più parti rispetto all’introduzione dell’autonomia riguardano la necessità da parte degli istituti di “accaparrarsi” i fondi privati, innescando tra loro una competizione che porta alla creazione di scuole di serie A e di serie B e in cui gli studenti sono ridotti a clienti da attirare anche attraverso operazioni di marketing, secondo i più tradizionali criteri aziendali.
Tuttavia, ciò che ha caratterizzato maggiormente la Buona Scuola è stata l’introduzione obbligatoria per tutti gli indirizzi di studio dell’alternanza scuola lavoro: anche in questo caso bisogna considerare il contesto storico in cui essa è stata effettuata. Sono gli anni del Jobs Act, la legge che prevedeva la possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un dipendente senza giusta causa: è la riforma simbolo della “liberalizzazione” del mondo del lavoro che imprime sempre più a quest’ultimo i caratteri di precarietà e flessibilità. Anche la scuola, dunque, si trasforma in un serbatoio da cui poter attingere manodopera totalmente gratuita da adattare fin da subito agli standard dell’instabilità economica e sociale.

Come si evince da questa serie di riforme, le istituzioni accademiche da luoghi inizialmente preposti alla trasmissione di un sapere teoretico, si sono trasformate nelle fucine in cui plasmare l’uomo nuovo della dimensione 4.0 della realtà ipertecnologica e standardizzata. Il fine dell’insegnamento non è più la persona in quanto tale, ma il suo utilizzo come ingranaggio della macchina industriale e lavorativa. Dunque, solo un cambio di mentalità che prenda le distanze dal modello dell’homo oeconomicus e dalla tirannia del “mercato” può riuscire a cambiare lo stato delle cose, formando non “servi” da dare in pasto al famigerato “mondo del lavoro”, ma cittadini il più possibile liberi e consapevoli.

[di Giorgia Audiello]