- L'INDIPENDENTE - https://www.lindipendente.online -

24 marzo 1999: quando la NATO riportò la guerra in Europa

Il 24 marzo del 1999 la NATO decise senza alcuna autorizzazione delle Nazioni Unite di avviare l’operazione “Allied Force”, una serie di bombardamenti sulla Repubblica di Jugoslavia che in 78 giorni provocarono morte e distruzione. In Serbia e in Kosovo, oltre agli obiettivi militari, vennero colpiti anche quelli civili: così caddero case, ospedali, scuole, edifici pubblici e culturali, lasciando [1] un numero indefinito di vittime. Ancora oggi, a distanza di 23 anni, si parla soltanto di stime, con cifre che variano fra i 1200 e 2500 morti, non dimenticando gli oltre 12000 feriti che l’intervento NATO causò nella prima guerra combattuta in Europa dopo i due conflitti mondiali.

Jugoslavia

Per capire come si sia arrivati al 24 marzo del 1999 è necessario tornare indietro di qualche anno. Quando il 4 maggio del 1980 Josip Broz Tito, storico capo politico e militare jugoslavo, morì, lasciò il Paese con una struttura federale organizzata in sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia, Macedonia e Montenegro) e due province (Voivodina e Kosovo) legate alla Serbia. Nel 1991 sia la Slovenia sia la Croazia dichiararono la propria indipendenza. Nel primo caso si registrarono alcuni scontri fra le forze federali e le milizie locali, risolvendosi a favore delle seconde. Ben diverso fu il caso della Croazia, territorio caratterizzato da una forte presenza di serbi che portò Belgrado a organizzare delle milizie paramilitari per ostacolare l’indipendenza croata. Nel 1992 le ostilità si intensificarono, portando a frequenti episodi di violenza reciproca e alle prime uccisioni di civili nella regione. In poche settimane il conflitto si estese poi alla Bosnia-Erzegovina, che nel 1992 proclamò a sua volta l’indipendenza dalla Jugoslavia: anche in questo caso intervenne l’esercito federale, portando Sarajevo a diventare teatro di continui episodi di violenza. In tale contesto l’ONU, vista agli occhi dell’opinione pubblica come l’unica detentrice di una soluzione della crisi, intervenne creando [2] una forza militare speciale delle Nazioni Unite, l’UNPROFOR, composta da militari di vari Paesi e dislocata prevalentemente in Bosnia con il compito, mai portato a termine, di creare aree protette a difesa della popolazione civile. 

Bill Clinton, Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1993 al 2001

I fallimenti dell’ONU, unitamente alla recente dissoluzione dell’URSS, accentuarono lo spirito “di risolutore” degli Stati Uniti, che nel 1994 intervennero “per ordinare il nuovo assetto internazionale sorto con la fine della guerra fredda”. Così, Washington iniziò a fornire un massiccio sostegno militare alla Croazia, che riprese a esercitare la piena sovranità sul proprio territorio, macchiandosi comunque di numerosi massacri nei confronti dei civili serbi. Contemporaneamente intervennero in Bosnia anche le forze aeree della NATO, scatenando una dura offensiva contro le unità militari della Repubblica serba di Bosnia, costituitasi qualche mese prima nella regione. La mobilitazione della NATO arrivò in un contesto in cui diversi attori politici iniziavano a interrogarsi circa le motivazioni del mantenimento dell’Alleanza, vista la dissoluzione dell’URSS. Così, già con i primi attacchi aerei alla Repubblica serba di Bosnia si iniziò a intuire la nuova natura della NATO, non più un’organizzazione esclusivamente difensiva, così come stabilito [3] nel suo Statuto. Il 24 marzo 1999 i presentimenti divennero definitivamente concreti: l’Alleanza aveva scavalcato l’ONU per intervenire in uno Stato non-membro, il Kosovo, seguendo non una logica difensiva bensì volta all’attacco.

A fine XX secolo, la Jugoslavia era formata da Serbia e Kosovo. Fonte immagine: BBC

Il Kosovo era abitato in larga maggioranza da popolazione di etnia albanese, ma considerato dai serbi come “culla” della loro patria; i rapporti fra i serbi (ortodossi) e gli albanesi (in gran parte musulmani) erano risultati conflittuali sin dal periodo della disgregazione dell’impero ottomano, per poi degenerare a fine XX secolo, quando nel 1998 Belgrado negò l’autonomia al Kosovo, iniziando una lunga repressione che portò alla morte di diverse migliaia di kosovari. Così, in un contesto di tentativi di risoluzioni pacifiche avanzati dalla comunità internazionale, la NATO decise di risolvere la crisi jugoslava attraverso l’operazione “Allied Force”. I bombardamenti cessarono dopo 78 giorni, il 10 giugno del 1999, con l’accordo di Kumanovo [4] che prevedeva il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo e il successivo dispiegamento di 37 mila soldati NATO nella regione.

Difendere i diritti umani dovrebbe rappresentare un caposaldo della democrazia. Tuttavia, come ha dimostrato l’intervento della NATO 23 anni fa, esso nasconde diversi problemi e coni d’ombra: dalle modalità con cui ciò avviene, generanti ulteriore distruzione e vittime civili, all’incertezza del diritto, dato che gli Statuti o comunque i documenti e le procedure vincolanti (ad esempio l’approvazione del Consiglio di Sicurezza ONU) perdono di valore, passando per quella che dovrebbe rappresentare una macchia indelebile nelle coscienze occidentali: la strategia del “due pesi due misure”, che non fa altro che discriminare le vittime e anteporre loro interessi geopolitici. Significativo appare oggi, alla luce dell’anniversario dell’Allied Force, rileggere l’articolo 1 dello Statuto della NATO: “Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite”.

[Di Salvatore Toscano]