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Il New York Times e il caso Hunter Biden: quando i giornali si autocensurano

Nel disco rigido di un laptop abbandonato tra gli scaffali di un centro assistenza del Delaware c’era, forse, la notizia che avrebbe potuto cambiare le elezioni americane del 2020 e la corsa alla Casa Bianca. Se gli americani e, in particolare, gli elettori di Joe Biden avessero conosciuto il contenuto delle email conservate in quella memoria, avrebbero potuto cambiare idea sul proprio voto e quindi sul risultato elettorale che ha detronizzato Donald Trump. Questo, almeno, è quello che si evince dal pezzo che il New York Times [1] ha pubblicato nei giorni scorsi, con 17 mesi di ritardo sulla vicenda. Un colpevole e ingiustificato ritardo, per una testata del prestigio e dell’influenza del NYT, che lascia appunto molti dubbi e perplessità sul modus operandi della blasonata redazione americana: l’8% degli elettori dem, secondo un sondaggio, ha dichiarato che non avrebbe votato Biden, se avesse avuto queste notizie per tempo.

Ma cosa ha tenuto nei cassetti il NYT tutto questo tempo, tanto da rafforzare una volta di più le critiche per essersi schierato a suo tempo a favore di Biden nella competizione contro Trump? Una serie di email che riguardano Hunter Biden e più in generale tutta la famiglia. Messaggi di posta elettronica saltati fuori nell’ambito di un’inchiesta della procura federale che ha per oggetto il figlio del presidente e i suoi affari con soci e società stranieri. L’imprenditore Hunter Biden, chiacchieratissimo in questi giorni anche per le vicende ucraine, ha dovuto chiedere 1 milione in prestito per pagare tasse arretrate. Confermando questa notizia, il NYT ha poi candidamente – diciamo – sfoderato la vicenda delle email mandate allo stesso Hunter e da lui stesso ad altre persone, tra le quali spunta e ricorre il nome del padre, Joe, oltre che dello zio (e fratello del presidente), Jim Biden.

Difficile, leggendo quelle email, non immaginare che il candidato alla Casa Bianca abbia sfruttato il suo ruolo e il suo potere per favorire e consolidare gli affari di famiglia, per così dire. O per meglio dire, il traffico di influenze internazionale, come è stato definito quel grumo di business e relazioni biunivoche tra gli Stati Uniti, chef famiglia Biden, e uomini d’affari e holding internazionali. Va precisato che l’autenticità dei messaggi è fuori discussione. “Quelle e-mail sono state ottenute dal New York Times da una cache di file che sembra provenire da un laptop abbandonato dal signor Biden in centro assistenza del Delaware. L’e-mail e gli altri documenti nella cache sono state autenticate da persone che hanno familiarità con i Biden e con l’indagine” ha precisato la testata, presentando il tutto come un’inchiesta esclusiva ma soprattutto nuova. Il problema, appunto, è che tutto il materiale giaceva nei cassetti del NYT da oltre un anno e mezzo.

E che materiale. Tra le email c’erano video e foto di Hunter Biden nudo, in evidente stato confusionale o forse sotto l’effetto di qualche droga, in compagnia di una prostituta. Materiale non proprio meraviglioso in caso di divulgazione, per chi ha un padre candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Ma le immagini e gli eccessi privati di Hunter Biden in una presumibile camera di albergo non erano l’unico ghiotto segreto custodito così a lungo dal NYT. Nelle email spunta infatti il nome di Tony Bobulinski, ex lottatore di wrestling e ufficiale di Marina che è stato Ceo di una joint-venture creata da Hunter Biden insieme ad un imprenditore comunista cinese nel settore dell’energia. Prima delle elezioni di novembre 2020, Bobulinski aveva confermato l’autenticità delle email presenti nel pc e che lo riguardavano. Una, in particolare, ha attirato l’attenzione degli inquirenti. Quella nella quale si descrive la divisione delle quote di capitale nella joint venture tra lo stesso Bobulinski, Hunter e Joe Biden e altri due soci. La ripartizione prevedeva il 20% per quattro e il 10% per quello che è stato definito “pesce grosso” e che Bobulinski ha identificato proprio come Joe Biden. Lo ha anche confidato a Ken Vogel, uno dei tre giornalisti del NYT che hanno firmato il pezzo, specificando che quella mail era già stata confermata autentica nell’ottobre 2020, prima delle elezioni ma quando la cache con le mail era in possesso del giornale, che non ha pubblicato nemmeno una riga.

Joe Biden non ha smentito nulla, né lui né la famiglia, forse anche perché Bobulinski ha consegnato alla FBI il computer e tutti i suoi documenti, e quindi potrebbero spuntare fuori altre cose imbarazzanti per il presidente degli Stati Uniti. Che ha incontrato Bobulinsky nel 2017, come affermato da quest’ultimo, per definire (in uscita dalla Casa Bianca come vicepresidente) i termini del business coi cinesi, un progetto che aveva richiesto due anni di lavoro. Quella del “pesce grosso” non è l’unica email che tira in ballo l’inquilino della Casa Bianca negli affari di famiglia: in un’altra, Hunter si lamenta con la figlia per le pretese troppo esose di suo padre. Ce n’è anche una in sui Eric Schwerin, uno dei soci dei Biden, chiede di spostare denaro tra i conti correnti dei due Biden. Una ricca e dettagliatissima inchiesta, insomma, che il NYT però ha pubblicato con 17 mesi di ritardo. Perché?

 [di Salvatore Maria Righi]